The Cult nascono nei primi anni ’80 a Bradford, nello Yorkshire quando il vocalist Ian Astbury formò i Southern Death Cult fondandosi per il nome della band sulla sua mai celata passione per la storia dei nativi americani, ma volendo in esso racchiudere quello che era il sentimento del tempo in Gran Bretagna di una sostanziale e mal vista (al nord) centralizzazione del potere nel sud (Londra). Questo primo nucleo di band ebbe anche un discreto successo e girò in lungo e in largo per l’Inghilterra.
Un paio di anni più tardi (1983) lo stesso Astbury incontrò il chitarrista Billy Duffy (che aveva già avuto esperienze a livello di band professionali nei Nosebleeds assieme a Morrissey oltre che nei Lonesome no more e nei Theatre of hate) con cui decise di collaborare formando una band a cui diede il nome di Death Cult. I due assoldarono il bassista Jamie Stewart e il batterista Raymond Taylor Smith i quali suonavano insieme in una band post-punk di Londra, chiamata Ritual.
I Death Cult esordirono in Norvegia nell’estate del 1983 e pubblicarono un EP proprio nel mese di Luglio di quell’anno. Avvenne pochi mesi dopo il primo avvicendamento nella band, con l’uscita di Smith e l’ingresso del batterista Nigel Preston con cui effettuarono un tour europeo negli ultimi mesi del 1983.
Nel 1984 la band assunse il nome definitivo di The Cult. Il primo album (Dreamtime) della band uscì proprio in quell’anno, ed ebbe un notevole successo tanto che il primo singolo estratto andò dritto al primo posto della classifica indipendente. Le tematiche dell’album ci mostrano un Astbury fortemente concentrato sui suoi temi più cari relativi ai problemi dei nativi americani.
Nel 1985, proprio subito dopo aver dato alla luce uno dei singoli di maggior successo per la band (She sells sanctuary) Preston viene licenziato dalla band, in quanto resosi del tutto inaffidabile a causa dell’eroina (morirà di overdose nel 1992). La band chiama il batterista dei Big Country Mark Brzezicki che compare anche nel video del singolo a dar loro una mano e con lui entrano in studio per dare alle stampe Love, un album più orientato alla psichedelia. Sarà un successo commerciale molto vasto, con più di due milioni di copie vendute. La band si imbarca in un tour planetario di quasi un anno dopo aver assunto il batterista Les Warner. Altri due singoli di notevole successo verranno estratti da Love (la celeberrima Rain e Revolution).
Nel 1987 esce, dopo una gestazione un po’ tumultuosa, Electric, l’album con cui la band deve confermare la propria attitudine verso il successo. Per la produzione ci si affida a Rick Rubin. Intanto dal tour precedente è entrato in formazione Kid Chaos al basso, mentre Jamie Stewart è passato alla chitarra ritmica.
Per la produzione del successivo album Sonic Temple, Warner e Chaos vengono licenziati, Stewart torna al basso, viene assunto il tastierista John Webster e la band si fa aiutare da numerosi batteristi per i provini (Eric Carr, Mickey Curry e alla fine Matt Sorum che registrerà le tracce). Bob Rock sarà in cabina di regia. L’album esce nel 1989.
Nel 1991 la band farà uscire un nuovo album, Ceremony, ma le cose tra loro vanno veramente malissimo, tutti i musicisti collaboratori vengono licenziati e gli stessi rimamenti Astbury e Duffy raramente vengono visti lavorare in studio insieme. Inoltre per colpa dell’immagine di copertina dell’album la band viene denunciata per utilizzo abusivo dell’immagine di un minore nativo americano, cosa che ne ritarda l’uscita in tutto il mondo.
Nel 1994 esce il sesto The Cult con Astbury e Duffy affiancati da Craig Adams al basso e Scott Garrett alla batteria.
Dopo questo episodio la band si scioglie momentaneamente fino al 1999 quando Astbury e Duffy si ritrovano con Matt Sorum e il bassista Martyn LeNoble dando alla luce l’album Beyond Good and Evil che fu un clamoroso insuccesso dato anche dal totale disinteresse della Atlantic Records che peraltro boicottò i singoli della band.
Vi fu quindi una seconda separazione che durò fino al 2006 quando la band si ritrovò per preparare un tour mondiale. Nel 2007 uscì invece Born into this, con una formazione ancora nuova che vedeva Chris Wyse al basso e John Tempesta alla batteria. Anche questo album non rese come sperato e portò Ian Astbury ad affermare che sarebbe certamente stato l’ultimo album in studio per sempre.
Ma come sempre le motivazioni vennero ritrovate e nel 2011 i Cult pubblicarono Choice of Weapon con la produzione di Bob Rock e, per la prima volta nella loro storia, la stessa formazione per due album consecutivi.
Nel 2014 Billy Duffy e Ian Astbury, sotto la guida ancora di Bob Rock, cominciarono a lavorare al decimo album di studio con rinnovato entusiasmo. L’album è quello di cui parliamo oggi dopo il lungo excursus che ci ha portato a ripercorrere la storia di 30 e più anni di lavoro.
Concepito e registrato in diversi studi californiani, come i Serenity West (Hollywood), Boulevard (Hollywood), Swing House (Glendale), Valley Recording Co. (Burbank) e gli Aala di Maui alle Hawaii vede scambiarsi il posto di regia tra numerosi tecnici tra cui Adam Greenholtz, Omar Yates, Clay Blair, Eric Helmkamp, Evan Bradford, Joe Cardamone e Tom Lellis. Del mix si occuperà ovviamente Bob Rock presso il suo The Warehouse Studio, mentre il mastering verrà effettuato da Ted Jensen agli Sterling Sound di New York.
Tutto questo ci fa pensare a come questo nuovissimo album dei The Cult sia stato concepito come un disco di quelli che si facevano una volta, con una produzione seria e una lavorazione in grandi studi per ottenere un suono di un certo tipo.
La band è per 3/4 quella degli ultimi due impegni discografici, tranne che per il bassista, ruolo nel quale si fanno aiutare da Chris Chaney, noto per essere stato a lungo bassista di Alanis Morrissette ed essere ora impegnato coi Jane’s Addiction. In più partecipa alle registrazioni il pianista e tastierista Jamie Muhoberac.
Scorriamo le 12 tracce di questo, ve lo preannuncio, bel disco:
- DARK ENERGY: Si apre con un suono molto tribale e molto rock. Il ritornello è suadente e bellissimo, ricorda qualcosa della new wave inglese dei primi anni ’80 (Depeche Mode innanzitutto, in fondo Billy Duffy è sempre stato un po’ Martin Gore in versione “rocker”), da cui pur discostandosi come sonorità, provengono anche gli stessi The Cult. Brano più che ottimo per aprire l’intero lavoro. Si nota che dal punto di vista della produzione non si è badato a spese. Il pezzo suona decisamente molto.
- NO LOVE LOST: E’ sempre buon vecchio rock’n’roll e ritmo tribale. Più riff-oriented della traccia precedente. Conferma le ottime sensazioni avute nei primi giri del disco. Molto calma la strofa, esplode di brutto nel ritornello. Il drumming di John Tempesta è potentissimo. Capita poco spesso di ascoltare in questi anni un disco che suona così bene anche nelle casse da computer.
- DANCE THE NIGHT: Gli echi sono sempre quelli della new wave degli anni ’80, ma il suono ci piace davvero tanto di più perché è davvero molto più rock, molto più di quanto la band abbia mai fatto in tutta la carriera. Canzone fatta per muoversi, per alzare il dito e indicare il cielo, magari accennando l’headbanging. Il trittico di apertura è devastante.
- IN BLOOD: Chiarissime le suggestioni di Jim Morrison e delle sonorità dei Doors nonostante l’evidente bagno in salsa Zeppeliniana in questo brano molto più calmo, ma non per questo meno incisivo e suadente. La voce di Astbury non ha perso un minimo di smalto nel corso degli anni.
- BIRDS OF PARADISE: L’atmosfera si fa più pop, con questa ballata dagli accenti un po’ sperimentali. Basso e batteria filano dritti dritti alla meta, con l’evidenza del fare decisamente molta fatica a suonare “piano”. D’altronde “It’s only rock’n’roll…”.
- HINTERLAND: Atmosfere più industriali in questa traccia ipnotica. Il ritornello libera dal torpore sceso per “colpa” della strofa. Potente e… industriale, l’unico termine che mi viene in mente per descrivere la sensazione che deriva dalla sesta traccia. E finora ci piacciono tutte.
- G.O.A.T.: Ancora più dura nell’intenzione e sporca nel suono. Il riff alla Keith Richards incontra la linea melodica che invece ancora una volta ricorda Robert Plant, uno di quegli incontri che sarebbe stato bello vedere davvero, anche se tutto è ancora possibile.
- DEEPLY ORDERED CHAOS: Con questo brano torniamo alle atmosfere dei primi due album della band. Bellissima, anche nel richiamo, lontano, agli AC/DC, da sempre fornitori ufficiali di ispirazione per la band di Bradford. La lirica di Astbury si insinua perfettamente fra il tappeto di tastiere e gli archi che fanno da contrappunto. Molto bella, pure questa.
- AVALANCHE OF LIGHT: Ce lo sento solo Lou Reed e tanta parte del suo sconfinato talento in questa traccia? Bellissimo, al solito, il ritornello.
- LILLES: E qui invece ci sento Bowie. Forse l’episodio meno riuscito del disco, si discosta moltissimo dalla sonorità del resto delle tracce donando un po’ di incoerenza al lavoro.
- HEATHENS: Torna il mio amato power rock, spinto in avanto. D’altronde anche se la band è britannica siamo da tempo negli States e, nel dubbio, la batteria deve spingere avanti e non tirare indietro come tipicamente fanno i drummers inglesi.
- SOUND AND FURY: Meravigliosa traccia quasi acustica in cui Astbury dà una prova interpretativa decisamente convincente. L’atmosfera è molto prog. Un modo meraviglioso per chiudere un album decisamente al di sopra della sufficienza.
Per chi se li fosse persi di vista nel corso degli anni sappia che i The Cult sono ancora più che vivi. E finché ci sono artisti in grado di produrre materiale del genere non tutto è perduto.
Disco bellissimo, il più bello sentito dall’inizio dell’anno.
Alla prossima.
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