Nel 1979 a Aylesbury, in Buckinghamshire, UK, nasce la band dei Marillion (all’inizio Simarillion dall’opera di J.R.R. Tolkien, ma poi nel 1981 quando cominciò a esserci un certo interesse intorno alla band si decise di abbreviarlo nell’attuale nome, per evitare ovvi conflitti di proprietà intellettuale) per opera di Steve Rothery (chitarra), di Brian Jelliman (tastiere), di Doug Irvine (basso e voce) e di Mick Pointer (batteria). Già nel 1981 avvengono i primi avvicendamenti all’interno della band (una caratteristica piuttosto pronunciata nell’ambito della band è quella di una certa “fluidità” di organico, nel pieno stile delle band britanniche degli anni ’70, come Deep Purple e Whitesnake insegnano), con l’ingresso di Fish (proprio in questo periodo viene cambiato il nome alla band) alla voce in luogo di Irvine, e di Diz Minnitt al basso. A fine 1981 se ne va anche Jelliman che viene sostituito da Mark Kelly alle tastiere. A fine 1982 anche Minnitt se ne va e la band trova un sostituto al basso in Pete Trewavas. Nel 1983 avviene un cambio alla batteria, se ne va Pointer, che viene sostituito prima da Andy Ward, poi da John Marter e alla fine da Jonathan Mover.
Nel 1983 esce anche il primo album della band Script for a Jester’s tear, un album che fa esplicito riferimento a quelle che sono le basi musicali della band, cioè i Queen, i primi Genesis, i Pink Floyd, Van der Graaf Generator, Rush e Yes.
Nel 1984 ancora un cambio di formazione alla batteria con l’uscita di Mover e l’ingresso di Ian Mosley. E nel 1984 esce anche il secondo capitolo musicale dell’esperienza dei Marillion, cioè Fugazi.
Questa è la formazione “definitiva” dei Marillion fino al 1989, quando Fish se ne andrà per i fatti suoi, lasciando l’incombenza della voce a Steve Hogarth ed è la formazione che ci interessa, la Mark VIII (parlando in gergo Purpleiano), la formazione con cui la band entra in studio per l’incisione del proprio terzo album.
Un album in cui la band viene lasciata libera dalla casa discografica di esprimere tutto il proprio potenziale, libera da stilemi, libera dal solco percorso nei due precedenti album e nel live che li aveva seguiti.
Nella primavera del 1985 i cinque si trasferiscono a Berlino, agli Hansa Tonstudio, con la produzione di Chris Kimsey, un produttore relativamente giovane, poco più di trent’anni, ma con già 15 anni di esperienza a fianco dei fantastici anni ’70 dei Rolling Stones.
Il risultato della lavorazione berlinese è Misplaced Childhood, pressoché universalmente riconosciuto come uno dei più grandi capolavori della band, se non il più grande in assoluto. Non si tratta di un disco qualsiasi e anche la sua genesi è alquanto particolare.
L’album viene registrato da Thomas Steihmler e mixato dallo stesso Chris Kimsey con la collaborazione di Mark Freegard.
La copertina, molto evocativa, viene concepita dallo stesso Fish, ma realizzata dai grafici Mark Wilkinson e Julie Hazelwood.
La particolarità principale è che i brani sono legati insieme da un’unica storia, ma non si tratta di un semplice concept: in realtà, esso era stato originariamente ideato per essere un unico brano diviso in più temi e ciò risulta evidente se si considera che questi si sviluppano in effetti lungo un unico filo conduttore e sono concatenati l’uno all’altro.
Basterebbe spostare anche solo un tassello di questo composito puzzle, per rendere tutto l’insieme illogico ed incoerente. D’altronde, bisogna fare caso al fatto che diversi temi musicali vengono ripresi più volte nel corso del disco, a prescindere da come s’intitoli il brano.
Dal punto di vista realizzativo però la casa discografica impose di trovare all’interno di un percorso musicale così complesso una decina di tracce per potere suddividere l’intero lavoro, ma, nella sostanza, di fatto poco cambia rispetto all’intento originario.
Particolare anche la genesi della storia alla base del concept, che Fish ha dichiarato essere frutto di circa dieci ore sotto l’effetto di LSD: le liriche sono ricche di immagini, di visioni e riescono a trasmettere l’idea di una sorta di viaggio introspettivo, tra amori svaniti e ricordi nostalgici, affrontando la durezza del presente e rimpiangendo un’infanzia irrimediabilmente perduta.
Come sempre, Fish è un maestro nella stesura dei testi, che in certi passaggi riescono davvero a colpire anche per la loro suggestiva e toccante vena poetica.
Si tratta dell’album di maggior successo dei Marillion anche per la presenza di alcuni brani destinati ad essere tra i più famosi della band, al punto da dominare le hit-parade: ciò sembra testimoniare come lo stile dei Marillion, sempre fortemente influenzato dai Genesis sia allo stesso tempo perfettamente calato nel sound e nel gusto degli anni ottanta, tanto da riscuotere ampi consensi anche da parte di chi con il prog non avesse poi tanta confidenza.
Andiamo a scorrere le 10 tracce divise artificialmente:
- PSEUDO SILK KIMONO: Inizio tastieristico su un giro in Si- nel pieno del prog anni ’80 e un accenno di new wave. Un inizio su cui la voce di Fish ricama una bellissima melodia che va a innestarsi sulla traccia numero 2.
- KAYLEIGH: Il singolo di maggior successo di sempre della band. Una canzone senza tempo e senza età. Bellissima, unica. La chitarra di Steve Rothery la fa veramente da padrona con un arpeggio rimasto nella storia e un assolo altrettanto pregiato. Qui il tema sembra invece finire con uno stacco dalla traccia 3.
- LAVENDER: Altro “masterpiece” della band. Bellissimo l’arpeggio di pianoforte. Un testo molto evocativo per una parte musicale assolutamente al di sopra del bene e del male. Un’altra canzone unica. Una perla rarissima.
- BITTER SUITE: Il secondo pezzo più lungo dell’album si compone di cinque piccole parti (Brief Encounter – Lost Weekend – Blue Angel – Misplaced Rendezvous – Windswept Thumb) che mostrano forse nella maniera migliore la lisergicità del viaggio di Fish, vissuto in maniera molto romantica, trattandosi di un’esperienza personale.
- HEART OF LOTHIAN: Anche questo brano è diviso in due parti distinte, “Wide Boy” e “Curtain Call”. Forse è l’episodio che richiama maggiormente l’esperienza dei fratelli maggiori Genesis. Siamo nel pieno delle loro atmosfere degli inizi.. Brano molto cantabile e lirico, anche nelle parti strumentali. Uno Steve Rothery decisamente superlativo la fa da padrone in questa traccia bellissima.
- WATERHOLE (EXPRESSO BONGO): Psichedelia pura. Il brano più oscuro del disco. Il più cupo. Ritmo e campionamenti tribali.
- LORDS OF THE BACKSTAGE: Un bell’esperimento di 7/8 piuttosto orecchiabile. Molto breve, dissolve obbligatoriamente nella traccia successiva.
- BLIND CURVE: Il brano più lungo dell’album. Un’altra suite composta di 5 elementi diversi (Vocal under a bloodlight – Passing stranger – Mylo – Perimeter walk – Threshold) dai temi e dai suoni piuttosto floydiani.
- CHILDHOOD’S END?: Un brano decisamente positivo. L’interrogativo del titolo è un’incitazione alla curiosità. A giudizio strettamente personale uno degli episodi più riusciti di questo molto riuscito album.
- WHITE FEATHER: Altro episodio decisamente riuscito. La sonorità ricorda decisamente i Simple Minds, quindi roba decisamente buona. Un vero gran finale.
Si conclude così lo splendido viaggio sonoro con il quale la band ci ha consegnato questo suo ineguagliabile lavoro.
L’infanzia “messa fuori posto” trova compiuta forma nel giullare che ha sempre contraddistinto le copertine dei Marillion, ormai pronto per spiccare il volo: il retro del disco, infatti, ce lo mostra dopo essersi ritrovato, senza più limiti, mentre si lancia dalla finestra, diretto verso l’arcobaleno.
Alla prossima.
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