Gli Aerosmith nascono a Sunapee, nel New Hampshire dall’incontro tra il chitarrista Joe Perry, il bassista Tom Hamilton e il cantante Steven Tyler (Steven Tallarico, all’anagrafe) a cui poi si aggiunsero il chitarrista ritmico Ray Tabano e il batterista Joey Kramer.
Dopo un paio di anni Tabano abbandona la band, con loro non avrà mai registrato nulla, ma a lui si deve (a parte l’inossidabile amicizia con Tyler) il disegno del logo che da sempre contraddistingue la band. Viene sostituito da Brad Whitford.
Nel 1973 la band pubblica il suo primo album ufficiale che porta il proprio stesso nome, non è un grande successo ma apre le porte a una novità. L’hard rock dei Deep Purple (per esempio) si mescola con le atmosfere blues americane per creare un sound che negli anni diventerà tipico dell’hard rock americano. L’album contiene la canzone Dream on, quasi unanimemente considerata la più bella canzone dell’intera produzione degli Aerosmith. L’anno successivo esce Get your wings (le ali fanno parte da sempre del logo della band di cui abbiamo già parlato) e non avrà molto più successo del suo predecessore. In questo periodo la band ha già trasferito il suo quartier generale nella periferia di Boston, i cinque vivevano insieme nello stesso appartamento e provavano in un seminterrato dell’MIT. Ancora un anno e poi il successo esplode tra le mani della band con l’album Toys in the attic (8 milioni di copie a tutt’oggi), e poi nel 1976 arriva Rocks, considerato uno dei migliori album di sempre da gente come Slash (è abbastanza evidente come Joe Perry sia il nume tutelare di Slash). Questi due capolavori portano gli Aerosmith al milionario contratto con la Columbia, ma la crisi è dietro l’angolo. Nel 1977 esce Draw the line che nonostante qualche brano di buona qualità non è eccelso. Intanto Tyler e Perry si guadagnano l’appellativo di “Toxic twins” (in una sorta di parallelo con Jagger e Richards, da sempre autodefinitisi i “Glimmer twins”) per il rapporto abbastanza spregiudicato con ogni tipo di droga. Nel 1979 Joe Perry e Brad Whitford se ne vanno dagli Aerosmith e la band entra in una forte crisi che dura fino al 1986, quando i due si riavvicinano e i Run DMC non decidono di fare di Walk this way un vero e proprio tormentone da ballo. La carriera della band, arenata nelle secche della crisi, torna in ascesa in un batter d’occhio.
All’inizio del 1992 la band è a Los Angeles agli A&M Studios per cominciare le registrazioni del suo undicesimo album. Gennaio e Febbraio vengono spesi per registrare 12 tracce e con l’estate era pronto, ma il leggendario John Kalodner (l’uomo che non facendo praticamente mai nulla di esecutivo ha per anni deciso le sorti del rock americano, infatti sulle copertine degli album ha sempre preteso di essere scritto come John Kalodner: John Kalodner una sorta di interprete di se stesso, anche se a dire il vero ai tempi era l’executive manager della Geffen) decise che l’album era un po’ “moscio” e poco vario e impose alcune altre tracce scritte in collaborazione con Desmond Child (che già aveva collaborato con la band al grande successo di Permanent Vacation di sei anni prima) che tantissimo successo stava avendo con i singoli scritti per Bon Jovi, per esempio.
E quindi la band torna in studio a Vancouver nel covo di Bruce Fairbairn e di Mutt Lange (ma sarà solo il primo a produrre l’album), i Little Mountain Studios di cui abbiamo avuto modo di parlare ripetutamente, per completare l’opera che vede la luce ad Aprile del 1993.
Il risultato di questa doppia produzione su una singola lavorazione è quello di un album da una parte fortunatissimo (ripetiamo, più di 20 milioni di copie vendute e 7 dischi di platino, due Grammy Awards, etc. etc. non sono risultati disponibili alle possibilità di tutti), ma da quell’altra fortemente disomogeneo, pieno da una parte di bellicose intenzioni, ma anche, dall’altra, di ballad da MTV (peraltro corredate da video prodotti e commercializzati apposta per le pruderie di MTV con attrici allora in rapidissima ascesa come Alicia Silverstone e Liv Tyler) come andavano di moda ai tempi. E’ quindi la corrente modaiola a fare vincere l’album su tutta la piazza mondiale, oltre ovviamente a una produzione perfetta.
Nonostante contenga alcuni tra i più grandi successi della band il disco viene stroncato dalla critica, bollato come inconsistente, vacuo, “di plastica”. Credo che ciò dipenda da quella sorta di puzza sotto al naso che circonda la critica quando si trova di fronte al lavoro di una band monumentale quale sono, e continuano a essere, gli Aerosmith, alle prese con un album “da classifica”.
In realtà molte delle tracce del disco sono invece piene di spunti positivi, vediamole:
- INTRO: Torna il riff di Walk this way per quesa brevissima traccia introduttiva che ci fa ricordare come la band sia rinata grazie all’intervento dei Run DMC.
- EAT THE RICH: Gran ritmo e un riff accattivante come non mai per la vera traccia programmatica di apertura dell’album. Giro di basso tra i più potenti che si siano mai sentiti in giro e i suoni della batteria (che sono il marchio di fabbrica dei Little Mountain) di una profondità e grandezza unica. Un gran pezzo, non c’è che dire. Dal finale un po’ “gastrico”.
- GET A GRIP: Particolarmente simile a Rag Doll non ne ripete l’esplosività. Anzi, non ne è nemmeno la pallida fotocopia. La canzone che dava il titolo all’album meritava contenuti maggiori per ottenere fasti maggiori.
- FEVER: Viaggia sul confine del metal. O almeno del metal che andava ai tempi. Soprattutto in America (si legga: Guns’n’roses). In realtà, pur venendo da Boston il pezzo ha un sapore molto southern, quasi Skynyrd. Ci si ballerebbe sopra un Tush Push. Per chi sa cosa voglio dire.
- LIVIN’ ON THE EDGE: La parabola della carriera della band di Boston, essere sempre sul filo della lama del coltello. Una canzone mitica, una ballata rock-blues che fa parte della ristretta cerchia dei migliori brani della band del Massachussets. Molto sensuale il modo con cui Tyler affronta la prima parte del cantato per poi esplodere nei ritornelli e nello “special”. Magari solo un po’ stucchevole il finale, che forse poteva essere tagliato un po’ prima.
- FLESH: Ed ecco l’intervento di Desmond Child per scrivere una canzone sbarazzina, in odore di Bon Jovi, ma l’esperimento riesce solo a metà. Perché? Perché gli Aerosmith non sono i Bon Jovi, e meno male.
- WALK ON DOWN: Joe Perry scrive, produce e canta questa canzone in chiaro odore di Rolling Stones. Piacevole, ma nulla più, poteva essere un lato b, ma non doveva andare su un disco. Da canzone di un chitarrista risulta forse un po’ troppo piena di narcisistici assoli (pur non essendo mai stato Perry un virtuoso dello strumento).
- SHUT UP AND DANCE: Una canzone che contiene echi di troppe cose per risultare coerente, sembra che per tutta la durata del pezzo la band dica “ecco, noi siamo questo”, poi cambia il ritmo e ancora “ecco, noi siamo questo”. Volevano essere un po’ troppe cose.
- CRYIN’: Giù il cappello per il pezzo che da solo vale l’acquisto dell’album (o forse dell’intera discografia degli Aerosmith). Per chi dice che una band hard non può fare una ballata del genere ricordarsi sempre che il loro brano più famoso è Dream on (come detto all’inizio di questo articolo), che di sicuro non è speed-metal. 6/8 meraviglioso, dalla strofa al bridge, dal ritornello allo special.
- GOTTA LOVE IT: Altro pezzo di difficile identificazione. Vale per lui lo stesso discorso della traccia numero 8. Questa cerca di fare il verso a “Love in an elevator” piuttosto smaccatamente.
- CRAZY: Altra ballata dal sapore blues, altro video che fece enorme successo. Infatti è facilmente assimilabile, nonostante l’incedere balzellante del terzinato la successione degli accordi è sentita e risentita. Incomprensibile l’inserimento del mandolino. Forse un retaggio ancestrale di Tallarico.
- LINE UP: Pezzo fresco e spumeggiante, anche se anche in questo caso c’è qualcosa di sentito e risentito.
- CAN’T STOP MESSIN’: Forse la canzone più nelle corde della band dell’intero album. Riuscita, ma non un miracolo.
- AMAZING: Bellissima e struggente. Ogni ulteriore parola è semplicemente inutile. La più bella del disco.
- BOOGIE MAN: Qualcuno un giorno mi spiegherà l’utilità di questo inutile pezzo finale. Non aggiunge nulla.
Si chiude così l’undicesimo album in studio per gli Aerosmith, il più venduto, il più commerciale. Quello che, una volta ascoltato dici “sì, è il più bello”.
Alla prossima.
Parto dalla fine: sei reo di avermi distrutto un mito come CRAZY! Questo è uno dei primi album acquistati da me, coi soldi della paghetta, e solo perchè piaceva ad un mio amico. L’ho messo su mentre facevo il disegno di educazione artistica (in cui ero una capra, ma erano gli unici compiti a casa che mi era permesso fare ascoltando la musica sennò non mi concentravo) e mio padre ha sentito il rutto finale di eat the rich (solo quello!): “cos’è sta roba? se vuoi sentire della musica, metti su sta cassettina qua”; ora, mio padre non è quello che si definirebbe un vate in questioni musicali, ma in quel caso, la cassettina, altro non era che Machine Head dei Deep Purple. Fu così che Get A Grip venne abbandonato per anni, ed anche il mio amico che me lo aveva consigliato! L’ho riscoperto più avanti, quando di musica ne avevo masticata abbastanza da potermi concedere IL RUTTO, e devo dire che l’effetto fu una gran bella botta.
Il fascino degli Aerosmith per me è sempre stato dato dal fatto che non riuscissi a catalogarli in genere: sono hard rock? No, per lo meno, non solo. Sono Metal? Assolutamente no…
Il fatto che piazzassero i fiati laddove ti aspetti solamente della gran ruggia sporca, mi ha sempre affascinato tanto.
Io quest’album lo promuovo insieme a tanti altri loro, fermo restando che non credo esista un album degli aerosmith in cui non skippo almeno 2-3 pezzi