Affrontiamo oggi un album famosissimo, incentrato su una canzone universalmente conosciuta (ma forse il discorso non è del tutto esatto, perché nel disco c’è molto di più, anche se la realtà è che l’album porta lo stesso nome di una canzone, che poi è anche la canzone più famosa della band che la ha scritta e interpretata e che identifica in pieno lo stile della band stessa).
Un altro di quei dischi da una trentina di milioni di copie vendute, di certo il più grande album degli Eagles, di certo quello di maggior successo, quell’album che se non fosse mai uscito gli Eagles non sarebbero la “one million band” (la band che ovunque sia chiamata a suonare chiede e ottiene un milione di dollari a sera) che sono ora dopo 40 e passa anni di gloriosa, anche se travagliata carriera.
Come si vede dalle foto pubblicate notiamo che il retro di copertina della versione su cd fa quello che è un po’ il nostro mestiere, e cioè ci parla della genesi di questo disco. Che è quello che ci piace delle copertine dei dischi, che ci facciano entrare in quella che è stata la lavorazione e il processo creativo dell’album.
Visto che, ovviamente le note sono in inglese, ci prendiamo il lusso di tradurle.
“Essendo Joe Walsh diventato membro della band a tutti gli effetti, gli Eagles si dedicarono per 8 interi mesi al raggiungimento dell’obiettivo di registrare Hotel California. Ulteriore tempo fu impiegato nel mixare il materiale sotto la guida di Bill Szymezyk, che aveva presentato Walsh alla band. Un meticoloso lavoro artigiano utilizzato per tutte le fasi della registrazione fu preceduto da più di un anno e mezzo di riflessioni e scrittura dei pezzi. Come si può capire, il duro lavoro dedicato a completare l’album ha portato alla band parecchi guadagni. Un vero e proprio album da primi posti in classifica vanta tre tracce che sono diventate prime in classifica nei singoli: “New kid in town”, “Life in the fast lane” e “Hotel California”. Quest’ultimo ha contribuito alla crescente reputazione della band riguardo al sapere scrivere pagine importantissime riguardanti quello stato d’animo chiamato Southern California”.
Ma questo potrebbe bastarci? Ovviamente no e quindi facciamo scattare la nostra indagine relativa al disco.
Gli Eagles vengono creati nel 1971 a Los Angeles da Glenn Frey (voce e chitarra) e Don Henley (voce e batteria).
Frey e Henley facevano parte della band di Linda Ronstadt e con l’aggiunta di Bernie Leadon (banjo, mandolino e chitarra) e Randy Meisner (voce e basso) e la pubblicazione del primo omonimo album nel 1972 (che conteneva brani eccezionali come Take it easy e Witchy woman) divennero subito il punto di riferimento di tutta la musica che contava nella west coast dividendo questo ruolo con un’altra band importantissima nell’immaginario collettivo dell’epoca, i Poco.
Nel 1973 la band pubblica il suo secondo album accolto tiepidamente dal pubblico, questo album era niente meno che Desperado.
Per cui, delusi dall’accoglienza del pubblico verso il loro secondo lavoro la band optò per un cambio di direzione nell’impronta musicale, virando su atmosfere decisamente più rock che country, come erano state all’inizio. Nel 1974 viene quindi inserito in formazione anche il chitarrista rock Don Felder, con cui la band pubblica l’album On the border ma nel 1975, all’inizio della lavorazione di un album importantissimo come Hotel California Bernie Leadon, a causa del progressivo abbandono delle atmosfere country operato dai suoi soci, se ne va dalla band e viene sostituito da Joe Walsh. Il suo ultimo album con gli Eagles sarà One of these nights.
A Marzo del 1976 la band californiana cambia totalmente costa americana e si chiude ai Criteria studios di Miami, FL per registrare il concept album Hotel California.
Nello stesso momento ai Criteria Studios, nella sala di ripresa adiacente, stavano registrando i Black Sabbath (l’album era Technical Ecstasy, per la cronaca) e gli Eagles ebbero modo di lamentarsi moltissimo per il fatto che il suono della band di Tony Iommi e Ozzy Osbourne era troppo forte tanto da non riuscire a essere contenuto dalle pareti divisorie e aver costretto le registrazioni dell’album della band californiana a fermarsi più e più volte.
Negli intenti della band, come dicevamo, Hotel California è un concept album che parla del declino della società americana verso il materialismo e la decadenza, dove la California è la metafora degli interi Stati Uniti e la Eagle, l’aquila è il simbolo della patria, una patria che al momento dell’uscita dell’album ha 2 secoli di storia e sente fortemente il bisogno di cambiare rotta.
Oltre che ai Criteria di Miami, la band registrò anche ai gloriosi Record Plant di Los Angeles, CA (l’unica delle tre “fabbriche del disco” ancora in attività, le altre due, che avevano sede a New York e Sausalito, CA sono chiuse da tempo), ma il mix fu terminato in Florida.
A parte i cinque Eagles nessun musicista aggiuntivo suona o canta su questo album, significativo di come, un tempo, si consideravano “autarchiche” le band.
Le nove tracce:
- HOTEL CALIFORNIA: Il brano, ma anche l’intero album, si apre con la chitarra 12 corde più famosa della storia (forse più di quella di Stairway to heaven) e si chiude con l’assolo di chitarra ugualmente più famoso della storia, interpretato con classe sopraffina dalle chitarre di Don Felder e Joe Walsh. La voce è quella inconfondibile di Don Henley, dopo Ringo Starr e Phil Collins il primo batterista-cantante. La canzone parla di questo “non luogo” (facilmente identificabile con la movida notturna di Los Angeles), questo hotel di lusso (in copertina c’è il Beverly Hills Hotel) nel quale se ti capita di entrare, con ogni probabilità ti terrà imbrigliato per tutta la vita. Il brano punta il dito direttamente contro l’edonismo che sta attanagliando la società americana in quegli anni. Un capolavoro, da qualunque parte la si legga, dalla musica di Don Felder al testo (meraviglioso) scritto a quattro mani da Don Henley e Glenn Frey.
- NEW KID IN TOWN: Il brano è stato scritto da Don Henley, Glenn Frey e da J.D. Souther ed è un’altra pietra miliare dell’opera della band di Los Angeles. Questo appartiene a un filone un po’ più old country style. La voce è quella di Glenn Frey. Il talento di Joe Walsh qui si impadronisce di tutte le parti di pianoforte e organo. Don Felder esegue l’assolo di chitarra.
- LIFE IN THE FAST LINE: Scritta da Joe Walsh, Glenn Frey e Don Henley. Ha un profilo un po’ più rock, quello che oggi verrebbe definito “new country”. La curiosità di questo brano è che il riff di chitarra che c’è più o meno a metà brano è stato inserito a scrittura del brano avvenuta, un giorno la band si stava scaldando in studio e Joe Walsh lo improvvisò, quando subito gli altri gli dissero “tienilo in mente, è una canzone!!!”.
- WASTED TIME: Scritta da Frey e Henley, vede lo stesso Frey al pianoforte e Henley alla voce. E’ il brano più McCartneyano dell’intera produzione degli Eagles. Armonie meravigliose e splendide atmosfere regalate dall’orchestra diretta da Jim Ed Norman. Chiude la prima facciata del vecchio vinile…
- WASTED TIME (REPRISE): …e apre anche la seconda con una reprise orchestrale dal suono sublime.
- VICTIM OF LOVE: Un rock anni ’70 piuttosto caruccio, non a caso scritto da Don Felder. La slide guitar di Joe Walsh lascia in bocca un sapore molto buono. Ma il brano è forse il meno consistente dell’album.
- PRETTY MAIDS ALL IN A ROW: La voce finalmente di Joe Walsh crea un po’ di varietà nella scaletta di questo album, per questo 6/8 lento lento e sognante da lui stesso scritto, assieme a Joe Vitale.
- TRY AND LOVE AGAIN: Qui invece a cantare è la voce di Randy Meisner, essendo lui anche autore del brano. Non è indimenticabile.
- THE LAST RESORT: Epico il finale dell’album per un brano meraviglioso e disperato che porta la firma, consueta, Frey/Henley, anche se a quest’ultimo va attribuito quasi per intero, per onestà mentale. Un brano che parla di come l’uomo inevitabilmente riesca a rovinare tutto quello che in realtà ha trovato bello. Spettacoloso. Un fantastico commiato per questo bellissimo album.
Uno di quei dischi, un altro in realtà, che è assolutamente necessario avere, anzi, che non è assolutamente possibile non avere.
Bellissimo. Ci fa tornare in un epoca che abbiamo vissuto da bambini ed è un disco che, in realtà già allora, avevamo capito di che pasta era fatto. Era nato classico. E lo è ancora, a 40 anni di distanza.
Alla prossima.
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