La mattina dell’8 Aprile del 1994 Kurt Cobain viene ritrovato morto (dall’elettricista che era andato a installare l’impianto di videosorveglianza nella sua villa) nella serra della proprietà che lui e Courtney Love avevano acquistato per una cifra di poco superiore al milione di dollari sul lago Washington, in un ricco sobborgo di Seattle. La morte viene fatta risalire a qualche giorno, prima, precisamente al 5.
Il 1994 è un anno drammatico per tutto il mondo della musica che ruota intorno a Seattle, patria indiscussa del grunge, musicalità e stile di vita nel quale convergono la voglia di libertà dei primi anni Novanta, l’eredità di Jimi Hendrix, l’influenza del Northern Rock di Neil Young e una buona dose di potenza musicale e lirica.
Cobain è stato il più noto, il più celebre, il più sovraesposto, il nume tutelare di un movimento che, sotto le firme di Soundgarden, Alice in Chains e soprattutto dei Pearl Jam, si è allargato dai Nirvana a macchia d’olio superando abbondantemente i confini dei territori a stelle e strisce.
Sulla scorta della tragedia del 5 aprile, si inserisce la prima e unica vera crisi del gruppo meno grunge e più trasversale, come poi dirà il tempo, della scena dello stato di Washington: i Pearl Jam, freschi di due monumenti come Ten e Vs, che insieme, hanno prodotto oltre sedici milioni di copie vendute, vivono il momento lottando contro tutto e tutti (dal concessionario dei biglietti a Mtv, rinunciando a realizzare video se non quelli derivanti dai live), cercano una nuova via che superi le barriere del genere.
La tensione interna alla band è alle stelle, il tour estivo viene interrotto, il batterista Dave Abbruzzese alla fine del tour farà le valigie per lasciare il posto al più solido Jack Irons: queste vicissitudini sono lo specchio di un periodo nero.
Da questo Black Hall nasce un album imperdibile come Vitalogy.
Perché è imperdibile?
Dopo i picchi raggiunti dai due album precedenti, forse, serviva un lavoro di rottura, di introspezione. Invece, Vedder e soci decidono di portare all’estremo quello che già si conosce della band di Seattle, idee, paure morte, vita, fato, follia, incubi si incrociano tra di loro su ritmiche che passano dal convulso, frenetico andare di “Spin the Black Circle” (una vera e propria ode al vinile, tanto che per le prime due settimane i PJ rinunciano al cd per privilegiare il disco nero), “Last Exit”, “Whipping”, all’avvolgente benché drammatico trascinarsi di “Immortality”, o “Better Man” che presto diventerà un brano culto che i fan cantano al posto di Vedder dalla seconda strofa in poi, accompagnati dalla chitarra del leader come scossi lievemente da una culla.
“Not For You” critica la ribellione dei giovani oramai mercificata, mentre “Nothingman” diventa la ballata classica della band di Seattle: vita e morte sono i temi che attraversano l’album, dall’apertura di “Last Exit” (forse un riferimento al suicidio e al ritrovamento del corpo di Cobain) ai riferimenti alla vita eterna in “Immortality”, penultimo pezzo della lista.
Non è, Vitalogy, il disco della maturità, piuttosto è il lavoro che porta all’estremo di una band sempre diversa, sempre fedele a se stessa: non è un caso se l’album, di 14 brani, contenga almeno sette pezzi suonati costantemente live dal gruppo.
Giunto al primo posto in Usa, Australia, Svezia e Nuova Zelanda, il terzo lavoro dei PJ ha avuto vendite per oltre quattro milioni e settecento mila copie.
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