E’ estremo il rispetto con cui mi accingo a trattare l’argomento di oggi. Mi tremano i polsi dalla paura. Perché sbagliare il tono e inimicarsi tanti quanti sono i fans della band di cui parliamo oggi è un attimo.
Essere fans dei Pink Floyd è qualcosa che John Lennon definirebbe “something to be”. Bisogna esserlo. Oppure non sei nessuno.
Io, in realtà (non ditelo a nessuno, mi raccomando!!!) sono diventato fan dei Pink Floyd una volta depurati dall’ingombrante presenza di Roger Waters. Pur reputando quest’ultimo un genio, lo ho sempre trovato di una pesantezza tremenda. Capace di creare assoluti capolavori, ma incapace di dare loro un minimo di leggerezza. Che è necessaria per rendermi fruibile un’opera nel miglior modo possibile. La vita ci mette davanti a momenti così tragici di suo che ho bisogno che l’arte mi doni un momento di leggerezza. E questo mi viene in mente soprattutto quando ascolto un disco dei Pink Floyd del periodo “capeggiato” dal bassista di Great Bookham.
I Pink Floyd, col nome ancora di Tea Set (poi mutato in Pink Floyd Sound e poi semplicemente Pink Floyd dall’unione dei nomi di Pink Anderson e Floyd Council letti sulla copertina di un disco) vengono fondati a Londra nel 1965 dal cantante e chitarrista Roger Keith “Syd” Barrett, dal bassista George Roger Waters, dal batterista Nicholas Berkeley “Nick” Mason e dal tastierista Richard William “Rick” Wright. Nel dicembre del 1967 ai quattro originari si aggiunge il chitarrista David Jon “Dave” Gilmour, amico personale di Barrett a cui all’inizio si affianca per aiutarlo a cantare e suonare dal vivo vedendolo attraversare periodi problematici, ma successivamente lo deve sostituire a causa della sua dipendenza dagli acidi e di una totale alienazione dal mondo circostante.
I primi anni della band sono dedicati allo sviluppo di un rock tipicamente psichedelico, fatto di lunghissime composizioni al limite dell’onanismo mentale. Dopo l’uscita dalla band di Barrett che era il massimo compositore dei brani si ha un periodo in cui i compiti vengono equamente divisi tra Gilmour, Waters e Wright. Arriviamo quindi al 1973, l’anno in cui uscì “The dark side of the moon”, il disco di cui parliamo oggi, un disco unico, che portò ai Pink Floyd una fama planetaria.
Un disco che rimane uno standard sonoro da più di 40 anni. Un disco che ha venduto poco meno di 50 milioni di copie (il terzo più venduto al mondo di sempre).
Il titolo è decisamente intrigante e in copertina c’è un’immagine molto semplice, minimalista, ma ricca di significati: come la celebre bocca con la lingua fuori dei Rolling Stones, anche il prisma rimane bene impresso nella memoria, e ogni volta che lo si vede non si può fare a meno di pensare ai Pink Floyd.
L’album sembra creato per raggiungere un pubblico più vasto di quello che seguiva la band già dai tempi psichedelici di Syd Barrett e poi delle lunghissime suites. Proprio per renderlo più popolare i Pink Floyd si adattarono a ridurre le proprie composizioni a qualcosa di un po’ più simile alla forma canzone e utilizzarono voci femminili per rendere più accessibile il proprio prodotto al pubblico comune.
Ma “The dark side of the moon” ha una genesi del tutto particolare. Completamente al di fuori degli schemi soliti.
I Pink Floyd avevano appena lanciato il loro album “Meddle” e stavano provando per il tour consequenziale al disco quando a Roger Waters venne l’idea di mettersi a scrivere nuovo materiale da inserire nella scaletta del tour. Anzi decisero proprio di basare il nuovo tour completamente sul nuovo materiale.
L’idea fu quella di dare una svolta completa alle tematiche della band. Si pensò di diventare molto più “diretti” nei testi e cercare di colpire nel vivo di tutte quelle che erano le paranoie della gente e che la band aveva dovuto affrontare per diventare quello che era. Non meno, le chiacchiere sullo stile di vita dei membri e conseguentemente sulla sorte toccata a Syd Barrett.
Tutti e 4 i Pink Floyd parteciparono alla stesura dei pezzi e i provini vennero registrati da Roger Waters nello studio ricavato in una costruzione nel suo giardino. Per il “The dark side of the moon tour” invece la band provò in un magazzino di Londra di proprietà dei Rolling Stones e poi al Rainbow Theatre e acquistò un impianto audio/luci completamente nuovo e strumentazione completamente nuova per un totale di nove tonnellate di materiale che giravano su tre camion.
Il tour servì alla band per affinare il materiale dal punto di vista compositivo. E a tour ancora in corso, nei primi mesi del 1973 cominciarono anche le registrazioni ufficiali presso gli Abbey Road Studios sotto la guida attenta e partecipe di Alan Parsons, responsabile di gran parte delle innovazioni sonore della band.
L’album è un concept concepito come composto di due parti differenti (le due facce del vinile) ognuna senza soluzione di continuità e ognuna costituita di cinque stadi differenti così da ottenere un totale di 10 tracce differenti.
Un filo sottile tiene insieme l’intero lavoro ed è un battito cardiaco che sottolinea come l’opera intera, organicamente, analizzi vari stadi della vita e vi ricerchi all’interno, come inteso da Roger Waters, l’empatia, la capacità quindi di riuscire a “sentire” ciò che chi ci sta vicino prova. Un compito gravoso, gravosissimo direi.
Le tracce:
- SPEAK TO ME: In realtà non è una canzone, ma semplicemente la breve ouverture di tutto il disco, costruita a tavolino dal batterista Nick Mason in base a un lavoro di raccolta di interviste fatte per conto di Roger Waters tra le maestranze a Abbey Road.
- BREATHE: Parole di Roger Waters e musica di David Gilmour, autore di tutto quanto assomigli a un blues (e questo vi somiglia moltissimo) nel repertorio della band. La canzone rappresenta il riposo dopo la venuta al mondo, il respiro non più affannato.
- ON THE RUN: Altra traccia musicale. Rappresenta l’ossessione della paura di morire in viaggio, uno degli innumerevoli viaggi che la band deve sostenere nell’esercizio del proprio mestiere, nell’esercizio dell’arte. Il loop di sintetizzatore è stato suonato da Gilmour e Waters. L’effetto treno è stato ottenuto da Gilmour con la chitarra, il resto dei suoni sono stati registrati in un aeroporto. Ossessiva, inquietante.
- TIME: Il secondo singolo estratto dall’album. E’ stato composto da tutti e quattro i Pink Floyd, caso piuttosto raro. Gilmour canta le strofe e Wright i ritornelli. L’inquietante opera di collage di orologi, ticchettii e sveglie varie all’inizio della traccia è opera di Alan Parsons. La canzone vuole rappresentare come spesso in gioventù si butti via il tempo. Uno dei più begli assoli di chitarra dell’intera carriera di David Gilmour in piena corrispondenza del suo stile, fatto di poche note ma quelle giuste e al posto giusto, con una cura quasi maniacale. La traccia si chiude con una breve ripresa della traccia 2.
- THE GREAT GIG IN THE SKY: Passata alla storia per il lungo assolo della corista Clare Torry di cui registrò tre take alla fine delle quali lei non era troppo convinta ed era sicura che la band non le avrebbe usate, ma quando la stessa Torry vide il suo nome sui crediti del disco appena acquistato si dovette ricredere. La canzone parla della morte ed è stata interamente composta da Richard Wright. La Torry però, nel 2004 chiese e ottenne le royalties per il brano ottenute da lì in poi.
- MONEY: La seconda parte dell’album si apre con questo brano interamente composto da Roger Waters. Un tempo dispari, un 7/4. Forse il più famoso di sempre. L’assolo di sax è di Dick Parry, amico personale di David Gilmour. Dopo l’assolo di sax però il brano passa a un più convenzionale 4/4 su cui David Gilmour struttura il suo assolo di due minuti (!!!) che contiene uno dei più famosi riff del pianeta (ovviamente una scala blues). Il denaro è la mamma di tutti i mali moderni, ma nessuno pare disposto a farne a meno.
- US AND THEM: Il primo singolo tratto dall’album. Un’invettiva di Roger Waters contro tutte le guerre (soprattutto quelle nei paesi poveri) e contro la povertà in generale composta su un brano di Rick Wright risalente al 1969. Un’armonia meravigliosa è quella che fa da sottofondo al ritornello. Torna ancora il sax di Dick Parry che ha del miracoloso.
- ANY COLOUR YOU LIKE: Altra traccia strumentale che porta la firma di Gilmour, Mason e Wright. Trova spazio un uso piuttosto spregiudicato di sintetizzatori analogici. Il titolo riconduce alla copertina e al fascio di luce che si scompone nei sette colori base. La leggenda narra che la copertina e il fascio di luce, nonché il titolo di questa canzone facciano riferimento alla battuta di Henry Ford che diceva che “la Ford T è disponibile in qualunque colore piaccia al cliente purché sia nero”.
- BRAIN DAMAGE: Il brano porta la firma di Roger Waters e riguarda la follia (evidente il riferimento a Syd Barrett). E’ l’unica canzone che contiene in qualche modo un riferimento a quello che è il titolo dell’intero album.
- ECLIPSE: Ultima traccia musicale a opera di Roger Waters è la somma di tutte le circostanze e momenti già narrati nel disco. Il significato è che qualunque cosa succeda è in armonia sotto la luce del sole, tranne quando essa è eclissata dalla luna, dove per luna si può intendere la follia umana. L’uomo è quindi l’elemento disturbatore di un insieme altrimenti perfetto.
Ascoltare tutto d’un fiato questo album che, a ragione (senza ombra di dubbio) viene considerato un’opera perfetta (ricordiamoci i due anni di studio “on the road” dell’intero materiale prima di entrare in studio), è un’esperienza che deve essere vissuta, come dico in uno degli articoli “manifesto” di questo sito, con tutti i crismi del caso. Cercando di entrarci dentro senza paure e senza preconcetti.
Assurdo, pazzesco, folle e stupido invece prendere una manciata di queste canzoni e sbatterle, svilendole, in una compilation sul proprio mp3 da ascoltare svogliatamente.
Non si legge la Divina Commedia senza adeguata preparazione.
Alla prossima.
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