Si parlava in uno degli ultimi articoli della superiorità della lingua inglese per quanto riguarda la cultura del rock’n’roll. Affrontando il prodotto di oggi questo appare decisamente palese anche all’orecchio più disattento.
Che cosa succede quando unisci un giornalista, chitarrista e musicista dotato di doti sopraffine e nonostante esca dal movimento punk un notevole gusto per tutto ciò che “suona bene” e uno scrittore e cantante molto dotato soprattutto di personalità e cultura poetica e in grado di scrivere liriche che rimarranno immortali?
Succede che hai creato gli Smiths.
Ma l’incontro deve avvenire… e l’avvenimento non è la cosa più consueta di tutte.
Siamo a Manchester, nel 1982: Johnny Marr (il giornalista e chitarrista di cui sopra), di Ardwick anche se di origini irlandesi è un chitarrista provetto che ha uno stile molto particolare, definito jingle-jangle e che diventerà il marchio di fabbrica della band. Johnny voleva mettere insieme una band con un amico, Steve Pomfret, anche lui un chitarrista con i controfiocchi, il quale tempo addietro aveva provato a mettere insieme una band con Steven Patrick Morrissey (lo scrittore e cantante di Manchester, ma anche lui di chiare origini irlandesi). Un giorno i tre si incontrarono… e nel giro di pochi secondi Johnny Marr e Morrissey avevano formato una band escludendo automaticamente Steve che disse “mi sono accorto subito della magia che c’era tra i due… e con cui io non avevo nulla a che fare”.
I due cominciarono subito a scrivere e a provare e scelsero un nome particolare e comunissimo allo stesso tempo: The Smiths.
La scelta del nome deriva dal fatto che ai tempi c’erano moltissime band che assumevano nomi magniloquenti e per lo più di fantasia. L’esigenza dei due, lo ripetiamo piuttosto colti e intelligenti, era quella invece di dare spazio a qualcosa di comune e destinato alla gente comune, pur rimanendo comunque “aulico”, per cui la scelta di chiamarsi con il cognome più diffuso di tutti tra gli anglofoni.
Verso la fine di quell’anno Morrissey e Marr reclutano Mike Joyce, e all’inizio del successivo anche Andy Rourke entra a far parte della band.
Già dopo un paio di concerti la band ha già un contratto discografico con la Rough Trade, una piccola etichetta indipendente di Londra il cui fare il passo a seconda della lunghezza della gamba fu determinante per il sodalizio con la band, durato per tutta la durata della band.
I primi due album della band (“The Smiths”, del 1984 e “Meat is Murder”, del 1985) la mettono in luce nel mercato mondiale ma la vera consacrazione arriva nel 1986.
Nella seconda metà dell’anno precedente gli Smiths affrontano un tour di eccezionale successo sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti, ma Johnny Marr ha il tempo di scrivere i pezzi per una nuova opera. Già alla fine dell’anno escono con un singolo che fa da preludio all’album di cui parliamo oggi.
Il precedente album era stato un successo, c’era un’enorme pressione sulla band (che non ha mai avuto un manager a fare da “filtro”, tutta l’organizzazione è sempre stata nelle mani di Johnny Marr) e quello che la sente di più è Johnny Marr che cerca di resistere bevendo e logorandosi la salute.
Ma, come un miracolo, l’opera che si sta compiendo è il definitivo salto di qualità. Un vero e proprio greatest hits di inediti. Un album che, a posteriori, nel 2013 il New Musical Express, la più autorevole rivista musicale britannica, definirà come il disco più bello di tutti i tempi.
Di questo non siamo sicuri, anzi, ma abbiamo la certezza che invece Rolling Stone sia più preciso con l’inserimento tra i 50 dischi veramente imperdibili.
La band a più riprese entra agli studi RAK di Londra con la supervisione tecnica di Stephen Street (e di John Porter) che registra e mixa il materiale.
Sui crediti in copertina si fa richiamo allo Hated Salford Ensemble che avrebbe suonato tutte le parti orchestrali dell’intero album (e sono molte). In realtà questa orchestra non esiste e le parti orchestrali sono state realizzate da Johnny Marr tramite suoni sintetizzati e campionatori, un lavoro improbo, ma riuscitissimo, forse il migliore di questo genere, tenuto conto del fatto che stiamo parlando di un album concepito e registrato nel 1985, e Salford è il quartiere di Manchester in cui viveva Johnny Marr.
Marr e Morrissey producono il disco che vede Alain Delon in una scena de “Il ribelle di Algeri” sulla copertina disegnata dallo stesso Morrissey. Il titolo doveva essere “Margaret on the guillotine”, riferito alle politiche conservatrici della Thatcher che le avrebbero fatto meritare tale ingloriosa fine, secondo Morrissey, ma alla fine il cantante si lasciò convincere a dare un titolo molto più accomodante come quello definitivo che peraltro è il titolo dato da Morrissey al brano di apertura dell’album.
Scopriamo quindi le 10 meravigliose tracce:
- THE QUEEN IS DEAD: Una canzone scritta tanto tempo prima da Johnny Marr, sorretta da una ritmica molto potente che ricorda i primi Simple Minds. Morrissey se la prende con la monarchia, colpevole, a suo dire, di fare di tutto per celare dietro a troppo imbellettamento, uno schifo morale peraltro sotto gli occhi di tutti. In realtà questa è l’ultima canzone del disco a essere stata registrata e contiene all’inizio il campionamento di “Take me back to dear old Blighty” (Blighty è un affettuoso modo di dire per intendere la Gran Bretagna), una canzone cantata dai soldati della regina durante la prima guerra mondiale.
- FRANKLY, MR.SHANKLY: Un’invettiva contro il boss della casa discografica il quale, intendendo Morrissey come una persona dotata di senso dell’umorismo non si offese per nulla riconoscendosi nelle parole della canzone.
- I KNOW IT’S OVER: La melodia richiama molto quella di Heart (I hear your beat) di Wayne Newton (“Cuore” di Rita Pavone) e Morrissey ha tranquillamente affermato di esservisi ispirato liberamente. Una delle più belle poesie dell’autore di Manchester, la fine di un amore che fa avvicinare così tanto alla sensazione di morte e di fine.
- NEVER HAD NO ONE EVER: Il senso di non appartenenza dell’irlandese trapiantato in Gran Bretagna, che non riesce a sentire come sua la zona in cui vive, non sa chiamarla “casa”. Secondo Johnny Marr questo blues bianco è il brano che meglio rappresenta l’intero disco.
- CEMETRY GATES: Forse l’episodio più leggero e fatuo dell’intero disco. Un ricordo di quando ripercorreva con l’amica del cuore di gioventù i vialetti del cimitero meridionale di Manchester. Famosa perché snocciola tutti quelli che sono i riferimenti letterari di Morrissey: Keats, Yeats e Wilde. Mancherebbe Delaney, ma glielo perdoniamo…
- BIGMOUTH STRIKES AGAIN: E arriva quindi, come un pugno allo stomaco, un pezzo meraviglioso, unico nel suo genere. Bigmouth è Morrissey stesso, uno che parla troppo e che finirà, come Giovanna D’Arco, per essere bruciato. La meraviglia di questo brano è il fatto che, pur trattandosi di un pezzo decisamente punk, la cosa non si senta, così pieno di melodia. Una curiosità: durante le registrazioni Morrissey stava giocando con un pitch shifter, un effetto per modificare la tonalità della voce. Si divertì a tal punto che le parti di coro inizialmente registrate dalla cantante irlandese Kirstey MacColl per questo brano vennero rifatte dallo stesso Morrissey con questo effetto e lì rimasero dove sono ancora. I crediti del disco riportano Ann Coates ai cori, in realtà anche questo è uno stratagemma come quello di Hated Salford. Ancoats è un quartiere di Manchester.
- THE BOY WITH THE THORN IN HIS SIDE: Quasi senza soluzione di continuità eccolo lì un altro brano assolutamente meraviglioso. La forma è più quella della ballata folk. La canzone riguarda il fatto che agli occhi di Morrissey la band non era stata accettata dall’industria discografica per quello che era (da questo la spina nel fianco). Famosa tra i fan degli Smiths perché è la prima canzone della band per cui sia stato girato un video.
- VICAR IN A TUTU: Un simpatico rockabilly acustico (dal sapore un po’ country) che prende in giro la chiesa attraverso la visione del prete che danza in calzamaglia sull’altare tra i fedeli che sganciano offerte per il mantenimento di questo triste spettacolo, giorno dopo giorno.
- THERE IS A LIGHT THAT NEVER GOES OUT: Una storia di un amore mai veramente manifestato alla persona amata (la luce che non si spegnerà mai, l’amore che non può morire se non viene confessato), stroncata da un incidente e quindi proiettata all’eternità. Un’altra canzone semplicemente meravigliosa.
- SOME GIRLS ARE BIGGER THAN OTHERS: Questo è tutto quello che ha da dire Morrissey dell’altro sesso. Indifferenza totale. Tanto da non essersi mai accorto che alcune ragazze hanno contorni fisici diversi da altre. Musicalmente l’album si chiude con un’altra perla di rara bellezza. Riguardo al volume dell’inizio che va e viene racconta Stephen Street di aver voluto dare l’idea dell’apertura e poi chiusura e poi riapertura definitiva di una porta.
Che dire in chiusura se non ribadire che sì, sono convinto che sia la vetta compositiva degli Smiths, ma che, sicuramente presenta già il germe che di lì a un anno portò allo scioglimento definitivo della band. Che fu vissuto da chi scrive abbastanza come un dramma esistenziale.
Ho amato alla follia questo album, e ancora mi dà emozioni fantastiche.
Alla prossima.
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