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1988 – The Seventh One – Toto – Columbia

1988 – The Seventh One – Toto – Columbia

Marzo 11, 2015 Diceilsaggio 0 1141

theseventhonefront

Sono passati sei anni dal clamore suscitato nel mondo dello spettacolo dal fantastico Toto IV di cui abbiamo già parlato su queste pagine e nel 1988 la “band of brothers” (è in corso di realizzazione, dispute legali a parte, un docu-film che ritrae le gesta dei talentuosi fratelli Porcaro, per questo ci piace usare questo genere di appellativo) ritorna a cercare di colpire nel segno con un lavoro organico e tecnicamente perfetto come il fratello dalla copertina rossa di sei anni prima.

Intanto i Toto hanno cambiato due volte cantante.

Al “rissoso” e incontrollabile Bobby Kimball (come abbiamo avuto già modo di dire cacciato dalla band per i suoi problemi con gli stupefacenti) è succeduto Dennis Fredriksen, detto Fergie, dotato di una voce potentissima e molto acuta, ma poco abituato al controllo dell’intonazione per cui il lavoro in sala e susseguentemente il tour di Isolation (uscito nel 1984) diventa un mezzo trauma per la band che decide di silurare anche lui. La scelta ricade quindi su quello che dall’inizio avrebbe dovuto essere il cantante ufficiale dei Toto, amico di famiglia di David Paich, ma che non venne selezionato per la giovanissima età (ai tempi dei primi provini della band aveva solo 17 anni), Joseph “Joe” Williams, il figlio del pluripremiato e celeberrimo compositore e direttore d’orchestra John Williams (5 premi Oscar!!!).

Joe è un altro caratterino da prendere con le pinze, è il ragazzo di Beverly Hills (a differenza degli altri che vengono dalla vallata), ma è un mostro di talento, dotato di una voce capace di acuti notevoli, ma anche di una altrettanto notevole estensione in basso, a sua volta tastierista e compositore di un certo livello. Un cavallo di razza e un frontman smaliziato e senza paura per la band. Soprattutto uno che sa come si scrive una hit e non ha parsimonia nel farlo, cosa che invece la band ha sempre rimproverato a Bobby Kimball, accusandolo di vivere di luce riflessa e del lavoro degli altri, di scrivere poco e soprattutto scrivere cose troppo autoreferenziali e inutili.

Con Joe, invece, la band ha già affilato le armi con l’album Fahrenheit (uscito nel 1986) che contiene alcuni singoli di sontuosi fattura e livello (“I’ll be over you”, “Till the end”, “Could this be love”), ma il top della produzione, dell’affiatamento e della sinergia tra la band e il nuovo cantante arriva con l’album del 1988.

Alla fine del tour mondiale del 1987 Steve Porcaro lascia ufficialmente la band per dedicarsi al suo lavoro di compositore di colonne sonore, ma continua comunque a lavorare con i Toto (infatti il suo lavoro di sintetizzatori, la sua specialità, su The Seventh One è facilmente percepibile) e andrà in tour con loro fino alla fine della promozione di questo album.

La Columbia, la casa discografica della band, pressa in maniera potente la band perché ripeta a tutti i costi i fasti dell’album pluripremiato anni addietro, ma i sei non si fanno intimidire e sfoderano una prova superba.

L’album viene concepito nello studio The Hogg Manor, lo studio personale di David Paich (a Sherman Oaks, andato distrutto nel terremoto del ’94) e ai sontuosi The Complex Studios.

Agli ordini di Bill Payne (il grande pianista americano viene chiamato appositamente da David Paich a produrre artisticamente il lavoro) e George Massenburg (il fonico inventore dell’equalizzatore parametrico, nonché fondatore della GML, una delle più famose ditte di sviluppo e produzione di macchinari da studio di registrazione al mondo) che curano il lavoro in studio e con la produzione degli stessi Toto i sei lavorano alacremente e di fino per produrre un album tecnicamente perfetto.

Per questioni cabalistiche la band sceglie un artwork molto simile a quello del fortunatissimo Toto IV (d’altronde la statistica dice che gli album più fortunati della band sono quelli con le spade e gli anelli in copertina). Altra nota cabalistica è quella di aprire l’album con una canzone chiamata con un nome di donna, come era stata “Rosanna” per Toto IV, così è “Pamela” per The Seventh One.

Assieme ai Toto in studio vedremo le collaborazioni artistiche di numerosi mostri sacri della musica: da Jon Anderson degli Yes a Linda Ronstadt a Patti Austin e Tom Kelly per quel che riguarda le voci e i cori, da Joe Porcaro (il papà dei tre, noto batterista jazz) a Jim Keltner a Michael Fisher a Lenny Castro a Andy Narell per quanto riguarda le percussioni, dai fiati di Jim Horn, Tom Scott e Jerry Hey, la steel guitar di David Lindley, le orchestrazioni di Marty Paich e James Newton Howard.

Tutto questo lavoro però, e a chi scrive la ragione è assolutamente ignota, porta all’album di minor successo (in patria) della band finora. Solo un singolo entrerà nelle classifiche americane.

In generale la critica americana ritiene che questo album sia troppo “prodotto” al punto da risultare abbastanza anonimo dal punto di vista del sound. C’è poi di bello che invece al di fuori degli Stati Uniti si comporta molto bene, spopolando un po’ in tutta Europa e in Giappone, portando la band a dire che non avrebbe mai più suonato in America, ma per fortuna ogni opinione è rivedibile.

Almeno tre canzoni di questo disco fanno da allora parte di tutte le scalette della band, segno che il pubblico ragiona diversamente dalla critica, per fortuna.

Scorriamo le 11 tracce dell’album:

  1. PAMELA: Echi di Rosanna. Lo shuffle di Jeff Porcaro e il basso di Mike letteralmente sorreggono questa canzone che è il primo singolo estratto dall’album e che ci regala un Joseph Williams in stato di grazia. D’altronde lui ha scritto la canzone (che è dedicata a una sua ex fiamma), lui la “sente” sua, nessun altro la potrebbe cantare così. Un gran pezzo. Il finale si presta moltissimo dal vivo a una lunghissima improvvisazione fusion (cosa che puntualmente, nel tour del 1988, succedeva).
  2. YOU GOT ME: Qui si sente benissimo l’eco della lunga collaborazione della band con Michael Jackson e Joseph Williams quasi si permette di “fare il verso” e imitare il re del pop. La canzone non è indimenticabile, ma  è fatta molto bene e fa sentire un altro lato della band, quello (appunto) squisitamente pop.
  3. ANNA: Ed eccola lì, la ballata di Steve Lukather, il “lentone” per eccellenza. Un pezzo struggente scritto dal chitarrista assieme a Randy Goodrum. Una perla di inestimabile bellezza è il lavoro dell’orchestra diretta da Marty Paich e James Newton Howard che rendono al meglio una canzone già di per sé unica.
  4. STOP LOVING YOU: Il singolo che ha sbancato in Europa e in Giappone. E’ entrata nella memoria collettiva. Dal punto di vista della scrittura David Paich riprende il tema di “How does it feel” (la ballata di Steve Lukather presente su Isolation) e lo sviluppa per crearne una hit che dalle scalette live della band non è più uscita. Il pubblico la vuole sentire. Da quando poi è tornato Joe a cantarla… ancora di più. Nella versione su album sono molto caratteristici i cori di Jon Anderson degli Yes, tipici della sua vocalità, ma nella versione destinata alle compilation successive (come “Past to present”) sono stati “tagliati” in sede di re-mix.
  5. MUSHANGA: Echi di Giamaica (lo stato) e di “Africa” (la canzone) in questo brano non a caso scritto da Paich e Jeff Porcaro (che avevano firmato l’immortale successo del 1982). Questa volta l’incanto non riesce e la canzone colpisce solo a metà. Sono bellissimi però gli assoli di “steel drum” di Andy Narell e di chitarra classica (ovviamente di Steve Lukather).
  6. STAY AWAY: Rock’n’roll allora… La band non si fa pregare a suonare. E Linda Ronstadt non si fa pregare a “urlare” il grido liberatorio del ritornello. Il classico pezzo con un “tiro” micidiale. Fantastico lo scambio di assoli tra Luke e David Lindley alla pedal steel.
  7. STRAIGHT FOR THE HEART: Un pezzo veloce veloce che mette in risalto le doti di un po’ tutta la band. Ma la parte del leone la fa il basso di Mike, precisissimo e potente.
  8. ONLY THE CHILDREN: Grande riff di chitarra per quello che, lo confesso, è il pezzo che mi piace di più dell’intero album. Ruffiano fin che volete, non è mica detto che le cose ruffiane poi alla fine non siano belle.
  9. A THOUSAND YEARS: Brano scritto da Mark T. Williams, fratello di Joe. L’atmosfera è molto più introspettiva a questo punto dell’album. Ma è anche molto più raffinata. Bellissima.
  10. THESE CHAINS: Un altro brano di Lukather piuttosto intimista e cupo. Anche qui un capolavoro di orchestrazione, senza rinunciare alle progressioni armoniche jazz che tanto piacciono al chitarrista californiano.
  11. HOME OF THE BRAVE: E arriva alla fine la canzone che la band finora non ha mai scritto, quella socialmente impegnata. Uno sguardo fiducioso alla situazione mondiale, ma la preghiera di ricordarsi anche che essere liberi è qualcosa da conquistare giorno per giorno. Un’altra delle canzoni che non sono più mancate dal vivo. Anche questa, come la traccia numero 1 permette lunghi finali e lunghissime divagazioni strumentali. Che sono puntualmente arrivate in quasi tutti i tour di qui a venire.

Io, dopo quasi 30 anni sono ancora parecchio innamorato di questo album bellissimo e fatto benissimo. E come già detto in precedenza, siccome non ritengo vero che la band sia quanto di più “freddo” e “impersonale” vi sia al mondo, come dice la critica musicale “che sa”, non credo neppure che questo sia un disco da buttar via. O meglio… ce ne fossero di album da buttare come questo. Li comprerei tutti!

Alla prossima.

theseventhoneback

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