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1980 – Back in black – AC/DC – Atlantic

1980 – Back in black – AC/DC – Atlantic

Febbraio 21, 2015 Diceilsaggio 0 821

Acdc_backinblack_cover

La notte del 19 Febbraio del 1980 in Overhill Road, a Dulwich (appena fuori dal cerchio della City di Londra) dopo una notte (e una vita) di epiche bevute, venne trovato morto, con i polmoni pieni del proprio vomito, sul sedile posteriore della Renault 5 di un amico che se lo era scordato lì (!!!), Ronald Belford Scott, trentaquattrenne cantante scozzese, naturalizzato australiano.

Il grande pubblico lo ha presente semplicemente come Bon Scott, il talentuoso cantante e paroliere dalla voce stridula e acuta degli AC/DC con cui ha scritto pagine epiche di hard rock dal sapore blues, dai primi singoli come “It’s a long way to the top (if you wanna rock’n’roll)” fino all’ultimo stratosferico successo con l’album Highway to hell che ha fatto diventare la band una band di culto planetario. Highway to hell supera infatti i 15 milioni di copie vendute.

Gli AC/DC avevano programmato di dare seguito immediatamente alla fortuna di Highway to hell senza soluzione di continuità e si gettarono subito a scrivere nuovo materiale dopo la fine del tour successivo a Highway to hell. La morte del frontman portò però la band a pensare seriamente allo scioglimento, anche se in un secondo momento, persuasi dalla famiglia di Scott e dal fatto che quasi tutte le canzoni ormai erano scritte decisero di rimettersi lo stesso subito a lavorare in una sorta di elaborazione attiva del lutto.

Dopo aver svolto un veloce giro di audizioni per un nuovo cantante il produttore Mutt Lange decise che quello giusto poteva essere il cantante dei Geordie, Brian Johnson il quale impressionò per il talento e la vocalità tutta quanta la band, tanto da essere chiamato per un secondo provino. Ma successivamente a questo secondo provino la band non gli disse nulla, salvo che dopo un po’ di tempo (un mesetto circa) lo ri-chiamarono chiedendogli “Com’è essere il nuovo cantante degli AC/DC?”.

Brian Johnson non ci credeva, nonostante la perdita e il lutto era il sogno della sua vita che si avverava. La band in realtà non era alla ricerca di un imitatore di Scott e Johnson era il tipo giusto, una vocalità decisamente più rude, un temperamento molto più aggressivo. Lui era l’uomo che stavano cercando.

Fecero tre settimane di prove negli studi E-Zee Hire di Londra per mandare i pezzi a memoria e, nonostante la band preferisse registrare sul suolo britannico, le registrazioni vennero invece programmate agli studi Compass Point di Nassau, Bahamas, perché non c’erano impianti disponibili in Inghilterra in quel momento che avessero ciò che la produzione richiedeva e, soprattutto, per gli innegabili vantaggi fiscali che spostare la produzione alle Bahamas comportava. Ecco, sugli studi Compass Point ci sarebbero da dire tantissime cose perché hanno una storia oltremodo importante, ma credo sia meglio rimandare il discorso, sottolineando che molto presto inaugureremo una sezione di queste pagine dedicata ai grandissimi studi di registrazione sparsi qua e là nel mondo, quelli che hanno fatto la storia della musica mondiale.

Diciamo solo che quando la band e tutto il personale di supporto sbarcarono, non senza peripezie indicibili per fare sdoganare tutto il loro materiale, sull’isola si scatenarono violentissime tempeste tropicali che fecero impazzire l’alimentazione elettrica dello studio e resero lunga e laboriosa l’intera produzione. Diciamo anche che quegli studi non erano stati concepiti per il suono della band, come noto molto asciutto. Erano studi molto più versatili per un altro tipo di suono, come quello pop o quello latino-americano (erano gli studi preferiti del grande produttore Humberto Gatica).

Il personale presente in studio a Nassau vede i fratelli Angus Young e Malcolm Young alle chitarre, Cliff Williams al basso, Phil Rudd alla batteria e il già citato Brian Johnson alla voce. A registrare il materiale c’è Tony Platt con il produttore Robert John “Mutt” Lange, al secondo album con la band australiano/scozzese.

Ma nonostante il lutto ancora ben vivo, la pressione sul vocalist Brian Johnson che ancora non si sentiva all’altezza (e che rifiutò categoricamente di cantare le liriche scritte sui nuovi pezzi da Bon Scott), gli imprevisti doganali e gli sconvolgimenti meteo l’umore in studio era altissimo. Sapevano che stavano creando leggenda. La band ancora racconta ridendo di quella volta in cui tra due assi del pavimento in legno dello studio cominciarono a comparire… i granchi.

Le sessioni di registrazione erano quasi al termine quando a Lange venne in mente la trovata della campana in “Hells Bells”. Trovò una fonderia nel Regno Unito pronta a fargliene una, ma oramai le sette settimane previste per la registrazione erano finite quindi lui e Tony Platt andarono a cercare di registrare la campana di una chiesa nei dintorni dello studio. C’era un problema “acustico”… il suono delle onde e degli uccellini in sottofondo non poteva essere fatto smettere per ordine e non c’entrava proprio nulla con il contesto dell’album. Il suono della campana presente sul disco venne registrato sul suolo patrio e aggiunto successivamente in sede di mix durante le sessioni ai gloriosi “Electric Lady Studios” di New York da Brad Samuelsohn. La fonderia precedentemente contattata portò comunque a termine il lavoro e quella campana fece bella mostra di sé sul palco della band

Dopo il mastering effettuato da Bob Ludwig ai Masterdisk Studios e l’artwork completamente in nero (listato a lutto per Bon Scott) il disco era pronto per l’uscita che avvenne a fine Luglio del 1980.

E fu un successo clamoroso. 50 milioni di copie vendute lo collocano al secondo posto tra gli album più venduti di tutti i tempi dopo l’arcinoto “Thriller” di Michael Jackson.

Scorriamolo traccia per traccia:

  1. HELLS BELLS: La campana di cui si parlava poco fa apre la traccia. L’incedere è marziale e perentorio. La voce di Johnson si fa notare subito urlando il disagio di trovarsi (durante le registrazioni) durante una tempesta che mette tutta la band in pericolo di vita, ma il pericolo peggiore è quello che ha portato alla morte il suo predecessore, l’eccedere con la vita considerandosi giovani e immortali. La canzone invece è, certamente, immortale. Sarà presente da qui in poi in ogni scaletta di ogni concerto della band.
  2. SHOOT TO THRILL: Ritmo decisamente più veloce, quasi irrefrenabile. E’ il settimo singolo estratto dall’album. Classico in stile AC/DC. Una canzone quasi festosa (tutti accordi maggiori) all’interno di un album “luttuoso”. Bellissima, comunque.
  3. WHAT DO YOU DO FOR MONEY HONEY: Maschilismo, machismo, un pelo di misoginia, ma comunque la si voglia leggere una critica all’universo femminile a partire dal titolo e fino all’ultimo accordo. Per di più il tutto inserito in una canzone scritta apposta per diventare un coro da stadio.
  4. GIVIN’ THE DOG A BONE: Un pezzo pieno di doppi sensi, anzi… è evidente il fatto che non ci siano doppi sensi. La voce duetta con il coro sull’enumerare le prestazioni e le posizioni che assume la partner durante… insomma, ci siamo capiti, no?
  5. LET ME PUT MY LOVE INTO YOU: Ancora doppi sensi estremamente allusivi su un brano che, dal punto di vista del ritmo e della musica ricorda molto “Hells Bells”.
  6. BACK IN BLACK: Il riff di chitarra è, dopo quello di “Smoke on the water” dei Deep Purple, il più famoso di tutti i tempi. Uno di quei riff che è facile trovare un cartello nei negozi di strumenti musicali con scritto “Per favore, quando provate le chitarre non suonate…”. A parte gli scherzi, che cosa si può ancora dire di un brano che è entrato, con pieno diritto, nella storia di tutti noi? Ogni ulteriore parola è inutile. Unica.
  7. YOU SHOOK ME ALL NIGHT LONG: Anche su questa canzone credo che ogni discorso sia superfluo a parte dire che nel testo tornano le tanto amate allusioni sessuali, in realtà è il più bel singolo dell’intero album. In America è stato il primo singolo della band a schizzare al numero uno. Fantastica. Ne sono state fatte decine e decine di cover da tantissimi artisti, anche in scene che non hanno nulla a che fare con l’hard rock. Di una bellezza davvero trasversale.
  8. HAVE A DRINK ON ME: Una di quelle cose che in un pub britannico uno vorrebbe sempre sentire… “bevete alla mia salute”, ma finché c’è tempo, perché la vita non è eterna. Torna l’atmosfera cupa nel ricordo di Scott.
  9. SHAKE A LEG: Un vero e proprio manuale di come si suona e come si balla il rock’n’roll. Canzone molto sottovalutata, in realtà meritava molto più rispetto, pur essendo nella scia di “You shook me all night long”.
  10. ROCK AND ROLL AIN’T NOISE POLLUTION: L’album si chiude con un’altra perla programmatica, il rock non è inquinamento acustico. I tempi erano ancora giovani per il rock e ancora tanti ne parlavano in toni biechi.

Un album di rock’n’roll imperdibile.

Un album di quelli che cambiano il corso della storia. Quando è uscito andavano già di moda suoni molto più commerciali di questi. Questo album ha fatto diventare commerciali e popolari (ricordiamo questa cifra: 50 milioni di copie vendute nel mondo!!!) i suoi suoni. Scusate se è poco.

Dovrebbe essere costituzionalmente vietato non averlo mai sentito. E’ particolarmente consigliato nelle giornate in cui si ha bisogno di un po’ di adrenalina purissima.

Alla prossima.

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Marco Tedeschi
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