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1992 – Keep the faith – Bon Jovi – Mercury

1992 – Keep the faith – Bon Jovi – Mercury

Febbraio 3, 2015 Diceilsaggio 0 987

keepthefaithfrontHo una memoria quasi perfetta del periodo. Erano tempi in cui ascoltavo tutto con la massima attenzione, con la cura di chi cerca di carpire i segreti giusti, con la celliniana precisione che solo a 20/25 anni si può avere.

Stiamo parlando della seconda metà del 1992 e c’era una band di cui da qualche tempo si erano perse le tracce, quasi da lasciar presagire un infausto epilogo della carriera e qualcosa forse era pure vero e non si trattava di leggenda sotto traccia.

Con la fine dell’estate (quella delle stragi di mafia, dei due album gemelli del boss Bruce Springsteen di cui parleremo tra non molto, l’estate dell’esplosione del fenomeno Elio e le Storie Tese, ma anche di Gianni Drudi e Fiky Fiky) circolano sempre più insistentemente voci che provengono dal New Jersey… i ragazzi terribili stanno tornando.

I catalizzatori dei sogni di metà delle giovani rockettare della seconda metà degli anni ’80 sono pronti a sfornare l’album del loro ritorno.

Già, i sogni proibiti delle ragazzine erano come al solito divisi in due, una volta c’erano i Beatles e i Rolling Stones, poi sono arrivati i Duran Duran e gli Spandau Ballet, ed io, come un cretino, che mi son sempre fatto piacere entrambe le fazioni: perché se l’Europa dell’hair metal aveva dalla sua i molto puliti, patinati e raffinati Europe, capitanati dall’efebico Joakim Larsson, ai più conosciuto come Joey Tempest, l’America rispondeva con i “rudi” (oddio, il termine potrebbe apparire sprecato nel caso di fattispecie) Bon Jovi, che venivano guidati dal più mascolino, con l’irsuto petto sempre ben in vista, che Paul Stanley parrebbe un’educanda, l’italo-americano Jon Bongiovanni, dal cui cognome venne tratto il nome della band.

Ed io negli anni dal 1986 al 1992 ho allegramente trotterellato tra i concerti di queste due band che ai tempi erano tra le mie preferite.

Ma veniamo a parlare del disco: i Bon Jovi sono fermi da 4 anni, perché durante il “New Jersey Syndicate tour” la convivenza era diventata abbastanza problematica tra i 5 membri della band (Jon Bon Jovi, Richie Sambora, Alec John Such, David Bryan e Tico Torres) che al termine del tour decidono di prendersi una salutare vacanza dagli impegni come band.

In questo periodo Richie Sambora inoltre dà alle stampe il suo primo meraviglioso album da solista “Stranger in this town” (prossimamente su questi schermi).

Ma è Jon Bon Jovi in particolare che vuole essere un vero e proprio padre-padrone dell’impresa di famiglia, licenzia in tronco il manager Doc McGhee e struttura la band come una vera società di cui, manco a dirlo, diventa il CEO.

Inoltre anche lui si prende una lunghissima vacanza solitaria che passa a scorrazzare nell’anonimato più assoluto in moto per l’America polverosa, vacanza che gli serve per scrivere “Blaze of glory”, la fortunatissima colonna sonora del film di Emilio Estevez “Young Guns II” e per trarre ispirazione per nuovi brani da proporre alla band.

Ad un certo punto però la premiata ditta Bon Jovi si ritrova per una vacanza collettiva chiarificatrice ai Caraibi, sull’isola di Saint Thomas, dove vengono appianati gli antichi dissapori, viene pianificato il lavoro in studio che comincia poco dopo in Canada, presso i gloriosi Little Mountain Studios di Vancouver che già avevano ospitato la band per i due lavori precedenti (“Slippery when wet” e “New Jersey”), oltre ad essere gli studi preferiti dai Metallica, da Bryan Adams, dagli AC/DC e dagli Aerosmith.

I cinque sono in studio e lì restano per 6 mesi, per cercare di dimostrare di non essere solo una glam band da tumulto ormonale di ragazzine isteriche, a maggior ragione perché il mondo è cambiato, il mondo della musica in particolare è cambiato. Sono anni in cui è il grunge a farla da padrona, sono necessari suoni più grezzi, magari melodie più dirette, la vicinanza di Vancouver con Seattle è quindi garanzia di potere “bagnare” la musica della band del suono giusto.

I Bon Jovi affidano la produzione del loro quinto album a Bob Rock (no, non quello del Gruppo TNT) che viene dall’immane successo del “black album” (tra virgolette, ovviamente sappiamo che non è il suo nome) dei Metallica, e non al più commerciale Bruce Fairbairn che aveva curato i lavori precedenti della band. Anche se entrambi i personaggi sono i fonici “residenti” dello studio a questo punto i Bon Jovi decidono di prediligere un suono più potente e Bob Rock, per questo motivo, non può che essere una sicurezza.

Nella scaletta l’album espone subito tutti i pezzi migliori per poi perdersi lungo la strada in una specie di tributo al mito dei Rolling Stones, non è detto che sia un male, ma ci sono almeno 4 o 5 pezzi nell’album che sembrano scritti dai Glimmer Twins.

Quando l’album esce sembra partire quasi in sordina, ma in pochi giorni raggiunge un successo devastante tanto da essere attestato a tutt’oggi sulla ventina di milioni di unità vendute (il terzo album di studio più venduto della band, dopo i precedenti due in ordine cronologico).

Le tracce, nell’edizione che analizziamo sono 13:

  1. I BELIEVE: L’album parte con una canzone che si riallaccia all’album precedente, più precisamente alla stra-famosa “Lay your hands on me” anch’essa brano di apertura del rispettivo album (quasi una sorta di scaletta programmata, o di cabala, in questo caso). La batteria di Torres è più potente che mai ed il suono di Sambora decisamente più duro e diretto che mai. La traccia viene scritta nella sua interezza da Jon (che suona anche la chitarra ritmica su questa, ma che però non la amerà mai più di tanto) e parla della tenacia con cui perseguire gli obiettivi che ci si è proposti. Sarà il quinto singolo estratto dall’album.
  2. KEEP THE FAITH: Ritorna in questa traccia la storica collaborazione a tre (Bon Jovi, Sambora, Desmond Child) che ha decretato il successo della composizione dei singoli storici della band. Il brano viaggia su un potentissimo giro di basso di Such a cui si unisce la batteria come al solito possente di Torres. La canzone è il vero spartiacque tra i “primi” Bon Jovi e i “nuovi” Bon Jovi, più maturi, più rock, più… americani. Dal giorno in cui è stata pubblicata è presente in tutte le scalette di concerto della band. Mitica!
  3. I’LL SLEEP WHEN I’M DEAD: Anche questa porta la firma del trio dei successi. La particolare ritmica anni ’50 e il suono della canzone la hanno resa un cult per i fans della band. La chitarra richiama in tutto e per tutto lo stile di Keith Richards, non di rado infatti dal vivo la band esegue questo brano in medley con “Jumpin’ Jack Flash”.
  4. IN THESE ARMS: Questa porta la firma di Bon Jovi, di Sambora e del tastierista David Bryan. Si riallaccia al discorso lasciato in sospeso da “Born to be my baby” di cui ha un giro armonico molto simile. Si appoggia su un avvolgente giro di basso ed ha chiari richiami del primo periodo della band. Infatti ebbe un successo clamoroso tra le ragazzine. Venne scelta come secondo singolo.
  5. BED OF ROSES: E pensare che Bon Jovi non la voleva neppure finire di scrivere… aveva solo un abbozzo di questo pezzo, pensato durante la sua byker-vacanza in Arizona, poi verso la fine delle registrazioni dell’album una sera le cose si mettono male e si sbronza… il giorno dopo porta a termine la stesura di quello che è, sicuramente, uno dei suoi capolavori. Un brano decisamente AOR, che conferma la svolta definitiva per la band.
  6. IF I WAS YOUR MOTHER: Brano tosto, a firma Sambora per la parte musicale e Bon Jovi per quella lirica. Rock duro, molto riff oriented e a basso tasso di bpm.
  7. DRY COUNTY: Ancora le suggestioni dell’Arizona e gli echi di “Blaze of glory”, la canzone è stata ovviamente scritta in quel periodo. E’ la più lunga canzone scritta mai dalla band (una suite di quasi 10 minuti, ridotti a 6 e mezzo nella versione singolo radiofonico) e tratta dei problemi della working class legati alla fine dell’industria petrolifera americana. Echi di Springsteen e, ci sia permesso dirlo di Mark Knopfler sia nella musica che nel testo.
  8. WOMAN IN LOVE: Ritorna l’incalzante e suadente ritmo un po’ boogie presente anche nella traccia 3. Il tema musicale invece è stato affrontato dai Bon Jovi piuttosto spesso… Non indimenticabile.
  9. FEAR: Il basso è in primo piano per una delle canzoni più power dell’album. Brano di sicuro impatto live.
  10. I WANT YOU: Ed ecco un’altra bella power ballad comunque sentita e risentita in altre tracce della band.
  11. BLAME IT ON THE LOVE OF ROCK & ROLL: Ancora echi di Rolling Stones, più precisamente di “Honky Tonk Women”. Niente di speciale, ma musica buona per fare festa (e riempire i dischi).
  12. LITTLE BIT OF SOUL: Sempre sulla scia dei Rolling Stones. Brano che parte quasi acustico e che poi diventa uno dei più bei rock’n’roll dell’album intero.
  13. SAVE A PRAYER: Non presente in tutte le versioni del cd, scelta condivisibile. Pezzo non indimenticabile.

Rimane ancora un bellissimo disco ed è stato un piacere, dopo più di 20 anni anni ripercorrerlo per intero per scoprire che è ancora un disco validissimo. Magari se ne producessero comunque ancora di album di questa intensità.

Alla prossima.

bonjoviback

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