Torniamo per un po’ in Italia e andiamo più precisamente indietro all’inizio del 1993.
Sono anni di profonda crisi per la nostra penisola, siamo nel pieno della bufera di Mani Pulite, in Italia proliferano gli “hard discount”, il gasolio per l’auto-trazione in breve quasi raddoppia il suo costo portandosi a valori molto vicini a quelli della benzina, tantissimi fanno fatica ad arrivare a fine mese, che al giorno d’oggi nemmeno se lo ricordano.
Ed in quegli anni cupi in cui qualcuno pensava di voler scappare all’estero e qualcun altro lo faceva davvero, Luciano Ligabue da Correggio, classe ’60, balzato agli onori della cronaca musicale per un paio di dischi ed un paio di tour nazionali di enorme successo (tanto da impensierire l’establishment musicale che vedeva in lui una ventata di nuovo decisamente ingombrante) pubblicava il suo terzo album.
Un lavoro molto curato, concepito molto bene, suonato molto bene, ma ritenuto forse un po’ troppo pretenzioso.
E’ il terzo e ultimo lavoro con il vecchio team: il produttore Angelo Carrara, dal quale Ligabue non vede l’ora di staccarsi e la band ClanDestino che lo ha accompagnato negli ultimi tre anni di scorrerie in lungo e in largo per il suolo della Repubblica Italiana.
E’ quindi in tutto e per tutto un punto di rottura: se nei primi due album Ligabue ha giocato scherzosamente parlando della vita di provincia nei suoi aspetti più goliardici e caratteristici, da qui in poi diventerà abbastanza cupo ed intimista.
Il suono di questo album (che, per inciso, è suonato a parer del sottoscritto, in maniera divina, rispetto ai precedenti due decisamente più raffazzonati…) porta il rocker verso l’hard rock, pur mantenendo la consueta apertura verso le ballate americane.
Nelle intenzioni dell’artista, che è anche produttore artistico e quindi responsabile del mutamento di direzione, e anche della produzione esecutiva doveva essere l’album della definitiva esplosione del fenomeno Ligabue, ma così non fu.
Appena uscito l’album viene accolto non con il calore previsto, nonostante il battage pubblicitario, ma riesce comunque a raggiungere la terza posizione nelle classifiche e a risultare il trentesimo album più venduto quell’anno.
Nel corso degli anni però il vero valore di questo disco è stato capito e da tempo è considerato l’album dell’artista di Correggio più amato dal pubblico, grazie alla presenza di alcuni singoli che sono da tempo ben stampati nella memoria collettiva, tra cui quella che in tanti, e credo a ragione, considerano in assoluto la più bella canzone di Ligabue: “Ho messo via”.
Partiamo dal presupposto che al momento dell’uscita del suo primo album Ligabue ha già scritto tutti i pezzi dei primi tre suoi album. Per cui nessuna delle sue canzoni dei primi tre album è contestualizzata nel momento in cui viene pubblicata. Tutte appartengono ai suoi cassetti di ricordi.
Col terzo album, si potrebbe dire che “raschia il fondo della botte”, ma non è così, semplicemente fa uscire il lato finora lasciato nel cassetto, quello più cupo, più senza speranza, più intimista.
E lo fa anche dal punto di vista del suono, che è decisamente “grunge” (ricordiamoci che sono gli anni in cui i Pearl Jam e i Nirvana vanno per la maggiore, per cui anche le produzioni discografiche italiane, che da sempre cercano di ricalcare l’onda del mercato piuttosto che proporre qualcosa di originale, in quei tempi cercano di inserirsi sonoramente su quella scia).
E la “poca speranza” che è il clima che aleggia su tutto il movimento grunge si riverbera anche su questo album, come dicevamo in apertura di questo articolo siamo più che convinti che fossero tempi bui, tempi che al giorno d’oggi non ci ricordiamo mica molto bene quanto fossero duri.
Come si può capire anche dalla copertina l’album ha un comune denominatore che è la metafora uomo-animale chiuso in uno zoo. Con qualcosa da cui si vorrebbe scappare, ma forse nemmeno così tanto, o comunque non se ne ha il coraggio. Perché il coraggio porterebbe un cambiamento ed il cambiamento è faticoso.
L’intero lavoro viene registrato da Paolo Lovat agli studi Umbi Medicina Blanche di Montale (MO) (che nostalgia per quel posto magico…) negli ultimi mesi del 1992.
Le tracce:
- ANCORA IN PIEDI: Si sopravvive a tutto e le storie di paese è sempre bello poterle raccontare, questa è la chiave della sopravvivenza. Parte in chiave blues, ma da subito ci accorgiamo che i primi due album del rocker di Correggio sono un lontano ricordo. Suono duro, sporco, cattivo. L’organo Hammond di Gianfranco Fornaciari è il degno contraltare della chitarra di Max Cottafavi.
- A.A.A. QUALCUNO CERCASI: Il trait d’union con i brani dei primi due dischi, poteva stare di fianco a “Balliamo sul mondo” e “Anime in plexiglass”. C’è bisogno di qualcuno nella nostra vita, qualcuno con cui poterla condividere e l’importante non è chi sia, ma come lo si cerca. L’importante non è la destinazione, ma la strada che si fa durante il viaggio.
- HO MESSO VIA: Mi lascia sempre costantemente senza fiato, per il sottoscritto è la canzone più bella di Ligabue. Assolutamente meravigliosa dall’intro di pianoforte di Gianfranco Fornaciari e della chitarra suonata con il bottleneck da Max Cottafavi all’assolo di tromba di Demo Morselli e tornando ancora al bottleneck dell’assolo finale. Una perla di veramente rarissima bellezza!!!
- DOVE FERMANO I TRENI: Le stazioni del mondo sono da sempre il ricettacolo di personaggi dei più disparati e disperati. Un pezzo molto duro, sia dal punto di vista musicale che di quello letterario. Gran velocità e ritmo sostenuto a meraviglia da Luciano Ghezzi e Gigi Cavalli Cocchi, a metà tra i Deep Purple e il glam rock americano e… sì, la cosa ci piace.
- I DURI HANNO DUE CUORI: Questa invece fa il verso, e molto, a “Bambolina e barracuda” anche con il parlato, già usato (squadra che vince non si cambia). Da un momento all’altro ci si aspetta il “già, perché c’è sempre una parte da recitare” invece arriva un’altra di quelle affermazioni del Liga rimaste nell’immaginario collettivo, la famosa “e gli scappa una stramaledizione”, con la “Z” tipica che solo chi abita dalle nostre parti sa dire.
- LA BALLERINA DEL CARILLON: La chitarra 12 corde di Ligabue la fa da padrona in questa ballata che parla del night club dove si esibisce la ballerina di lap dance come se appendendosi al palo e girando fosse una ballerina di una music box. Metafora molto delicata per un mondo con poche luci.
- PREZOO: Breve strumentale che fa, appunto da intro alla traccia seguente.
- LO ZOO E’ QUI: E tornano ancora le sonorità in odore di Deep Purple che tanto sembrano piacere al Liga per questo 6/8 veloce in cui è chiaro vedere la metafora che sottende l’intero album e cioè distinguere, mentre la si osserva, la popolazione mondiale in categorie simili agli animali da zoo.
- PICCOLA CITTA’ ETERNA: Omaggio di Ligabue alla sua Correggio, ma soprattutto al suo unico grande maestro, Francesco Guccini. Echi di “Urlando contro il cielo”… forse più che echi.
- WALTER IL MAGO: Ballata al pianoforte che ricorda (siamo più che convinti che la citazione sia diretta) “Running to stand still” degli U2. Il vecchio mago non stupisce più nessuno, ma tutti lo guardano ancora con ammirazione, più per la costanza che per la bravura.
- PANE AL PANE: Anche qui gli echi sono tutti delle sonorità degli U2. Un pezzo molto diretto che parla di quando l’istinto sovrasta la ragione.
- QUANDO TOCCA A TE: Andamento marziale di pianoforte e chitarra acustica per spiegare che ci sono delle occasioni in cui non si può fare altro che metterci la faccia. Molto carino il finale con la Asioli Jazz Band, da Correggio doc.
- SOPRAVVISSUTI E SOPRAVVIVENTI: Uno strumentale alla Morricone in cui il kazoo suonato da Ligabue ed il flicorno suonato da Demo Morselli viaggiano leggeri sul tappeto degli archi diretti dallo stesso direttore d’orchestra di Rolo.
Ai tempi fu molto bello innamorarsi di questo album, che mostrava come anche in Italia si potessero fare “certe cose” e forse ha ragione lo stesso Ligabue a dire che sì, questo è il suo album che i fans amano di più.
Alla prossima.
Uno splendido album, a mio modesto parere. Forse troppo poco conosciuto.