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1987 – The Joshua Tree – U2 – Island

1987 – The Joshua Tree – U2 – Island

Gennaio 22, 2015 Diceilsaggio 0 1564

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Chi non ha paura è un pazzo. Ed io a parlare dell’album che mi accingo a trattare oggi ho invece proprio una gran paura.

Perché quello di oggi è assolutamente una pietra miliare.

Dell’inverno tra il 1986 e il 1987 ho un ricordo nebuloso, è un periodo molto buio della mia vita, ma ricordo nitidamente che circolava sotto traccia negli ambienti che frequentavo (conservatorio, liceo, prime band adolescenziali, etc.) una voce che destabilizzava la mia anima da inquieto teenager. Gli U2, dopo il successo di “The Unforgettable fire” ed il tour di Amnesty International del 1986 si erano sciolti.

Niente di più falso!!!

Perché poi a Marzo del 1987 gli U2 se ne arrivarono nei negozi di dischi con quello che è, certamente, il loro album migliore, quello più dirompente, quello che li fa diventare gli U2 che tutto il mondo riconosce.

In realtà il quartetto irlandese composto da Bono Vox (Paul David Hewson all’anagrafe), The Edge (David Howell Evans), Adam Clayton e Larry Mullen non aveva nessuna intenzione di sciogliersi. Stava semplicemente sciacquando il proprio fervore irish (e bisognerebbe conoscere quello che vibrava in Irlanda negli anni ’80 per poter capire tantissime cose, che forse in Italia invece non si capiranno mai, ma parliamo di musica che è meglio) in altre acque, più precisamente quelle del Mississippi.

Sì, perché se c’è una cosa che si può dire con certezza di The Joshua Tree (avevate capito che si parlava di questo, oggi, no?) è che si tratta, in assoluto di un album americano. Che uno poi dice “no, ma gli U2 sono irlandesi”. E chissenefrega, questo è un album americano. Punto.

Bono in quel periodo oltre al solito Van Morrison ascolta tantissimo Bob Dylan e Patti Smith (e non solo a livello di ascolti musicali, i tre sono proprio amici, si frequentano, si “ascoltano”), The Edge sembra diventato il gemello di Keith Richards (un altro che la matrice britannica se la è scordata da un po’ per prender casa in America), tutti e 4 si fanno una scorpacciata di rock’n’roll e pop anni ’50 e si trasferiscono negli studi “Sun” di Memphis (qualcuno ricorda per esempio un certo Elvis Presley, o un certo Jerry Lee Lewis, o un certo Johnny Cash, per caso?) a concepire il loro capolavoro.

Capolavoro che è un vero e proprio tributo all’America. A partire dal titolo che richiama in se stesso la “Iucca brevifolia” (o, appunto, albero di Giosuè), una pianta tipicamente americana.

La veemenza del quartetto di Dublino e la poesia americana vengono stemperate e mescolate meravigliosamente dalla produzione di Brian Eno e Daniel Lanois che tirano fuori dai quattro assolutamente il meglio. Ed il periodo con loro è in assoluto il migliore della band dal punto di vista compositivo e realizzativo.

E con l’uscita dell’album (un po’ a sorpresa per noi brufolosi adolescenti) si decreta una di quelle dispute generazionali: da una parte i nostalgici che dicono che non c’è più rock e fervore nella band, da quell’altra quelli che invece hanno scoperto che il rock un po’ punk degli inizi ha trovato sbocchi melodici e poetici che hanno fatto sì che la band è ora una cult band.

In buona sostanza questo fa gioco agli U2 che realizzano il più grande successo della loro storia.

The Joshua Tree vende poco meno di 30 milioni di copie, di cui più di 10 solo negli Stati Uniti. E’ un successo pazzesco in tutto il mondo e la band comincia un tour interminabile che porterà i nostri anche in Italia con tre date di cui due nello stadio della mia città (ero presente la prima sera) nell’anno più importante per la musica a Modena.

L’album vince due Grammy, i primi per la band (come miglior album e come miglior performance rock di una band).

Ma non ci si aspetti da parte di Bono e soci un’elegia dell’America. Erano i tempi bui dei governi Repubblicani che avevano raggiunto la non invidiabile meta del fare eleggere alla Casa Bianca il non indimenticabile Ronald Reagan. Inoltre la band collaborava con Amnesty International e gli USA erano impegnati in poco edificanti campagne in centro america. E Bono non è mai stato uno che le cose le mandasse a dire a nessuno.

Però alle ambientazioni americane e alla poesia di certi paesaggi e di certe situazioni nessuno può rimanere insensibile e così fu anche per loro.

Se si scorrono le tracce ci si accorge di come l’album si apra con le scintille migliori e poi vada via via a scemare. Non è un caso. La band ha fatto scegliere la “scaletta” del disco a Kirsty MacColl (la splendida voce femminile, purtroppo scomparsa in un’immersione subacquea, di Fairytale of New York, la meravigliosa ballata dei Pogues) che ha messo all’inizio le canzoni che preferiva e poi via via le altre. Evidentemente il suo gusto è risultato abbastanza “oggettivo”.

Vediamole quindi con la consueta analisi.

  1. WHERE THE STREETS HAVE NO NAME: L’inizio è epico e poi la chitarra dagli infiniti echi di The Edge prende il sopravvento per portarci in un viaggio nel posto in cui siamo tutti uguali. Quante volte abbiamo giudicato una persona per dove abita, per come si veste? Dicevano che a Belfast dalla via dove abitava qualcuno si potesse capire di che religione era e pure quanti soldi avesse. Il sogno è quello di un mondo dove le strade non hanno un nome e di conseguenza nessuno possa essere giudicato.
  2. I STILL HAVEN’T FOUND (WHAT I’M LOOKING FOR): Uno dei più bei gospel mai scritti. Il singolo uscì in versione black gospel, con tanto di cori battisti. Narra di come sia difficile in un mondo che ci mette continuamente alla prova e che mette continuamente alla prova la nostra pazienza, mantenere una salda fede nell’eternità e in Dio (questione molto sentita nella cattolicissima Irlanda, ma anche nella “bible belt” la zona del mid-east americano). La composizione è avvenuta a “parti invertite”, mentre solitamente è Bono a scrivere le parole sulle musiche di The Edge, in questa è successo esattamente il contrario.
  3. WITH OR WITHOUT YOU: Forse (assieme alla successiva “One”) è il singolo più famoso della band irlandese. Giro ossessivo del basso di Adam Clayton dall’inizio alla fine del pezzo, le cose semplici vincono sempre. La voce di Bono all’inizio sussurrata arriva ad essere un vero e proprio grido lancinante. E’ un addio. Una storia d’amore che finisce o è l’addio alla ricerca di qualcosa di metafisico? Rimarremo eternamente nel dubbio e sia data libertà di interpretazione, che è la cosa più giusta. Rimane che il pezzo è impresso a fuoco per l’eternità.
  4. BULLET THE BLUE SKY: I vecchi U2. Parte la batteria di Larry Mullen per un pezzo ossessivo, sporco, cattivo e pieno di rabbia sociale verso gli USA che dagli anni ’70 hanno deciso l’embargo ed il finanziamento di gruppi paramilitari in America Centrale per mantenere vivi e vegeti i propri interessi, dimenticandosi della gente…
  5. RUNNING TO STAND STILL: Un pezzo con una melodia meravigliosa che fa un po’ il verso a Bob Dylan, ma soprattutto a Elton John di “Candle in the wind”, parlando di droga attraverso la narrazione della storia di una coppia talmente schiava dell’eroina da essere arrivati a vendersi tutto e a fare i corrieri della droga.
  6. RED HILL MINING DOWN: Ancora rabbia sociale per i minatori che negli anni ’80 in Gran Bretagna rischiavano di perdere il posto, la dignità e gli affetti proprio perché hanno perso il lavoro.
  7. IN GOD’S COUNTRY: Un buon ritmo per un pezzo che attraverso il tipico stile new wave dei primi anni ’80 si propone di essere un pezzo “on the road” in cui Bono, volendo parlare dell’Irlanda si ritrova invece a parlare degli Stati Uniti d’America.
  8. TRIP THROUGH YOUR WIVES: Ancora Bob Dylan fa capolino nella stesura di questo brano in 12/8 che parla di quanto si serrino troppo forte i legami e di quanto il non essere liberi all’interno di una coppia sia invece fonte di felicità invece che di “sentirsi in gabbia”.
  9. ONE TREE HILL: Una dolcissima dedica di Bono al suo assistente Greg Carroll, morto in un incidente mentre guidava la moto dello stesso cantante svolgendo una commissione per lui.
  10. EXIT: Ancora dubbi della fede, cercare di capire come si può passare da essere uomini probi a decidere di commettere un delitto, o un suicidio.
  11. MOTHERS OF THE DISAPPEARED: Come Sting nello stesso anno con “They dance alone” anche gli U2 decidono di dedicare un pezzo al coraggio delle madri di Plaza de Mayo ed alla vergognosa vicenda dei desaparecidos, un capitolo nerissimo della storia mondiale.

Una sola parola per concludere: imperdibile.

Alla prossima.

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