L’album oggetto del nostro racconto odierno fa parte assolutamente della categoria delle pietre miliari, un album che non può mancare nella discografia di nessuno. Un vero e proprio capolavoro di valore assoluto, uno di quegli album che probabilmente stanno in un ristretto olimpo, massimo una decina.
Come al solito c’è un rischio che accetto serenamente e onestamente: siccome parlerò di un album che davvero ha cambiato la percezione collettiva della musica e che ha fatto diventare la band che lo ha prodotto un vero e proprio oggetto di culto per centinaia di milioni di persone potrei scontrarmi con i fedelissimi e i “fondamentalisti” (ci sono anche nella musica, purtroppo) qualora dicessi qualcosa di “sbagliato”, ma siccome anche io sono piuttosto fan di questa band i toni saranno più quelli dell’elegia che quelli della critica.
D’altronde come si potrebbe criticare A Night at the Opera, il quarto album dei Queen datato 1975?
L’album è considerato da tutti, chi più chi meno, e a ragione, il lavoro più rappresentativo del quartetto composto da Brian May, Freddie Mercury, John Deacon e Roger Taylor.
Il disco ebbe una gestazione importantissima, un intero anno di lavoro, perché la band, che cominciava a godere di un certo successo e veniva da Sheer Heart Attack che li aveva finalmente fatti sbarcare anche negli USA con un discreto riscontro di vendite, non badò a spese (tanto i soldi erano quelli della EMI, mica erano i loro, no?), registrò in tantissimi studi londinesi diversi per ottenere il massimo risultato (i Trident Studios di Soho, i Sarm Studios di Notting Hill, i Roundhouse di Camden Town, gli Olympic Studios di Barnes, gli Scorpio di Euston, i Lansdowne di Holland Park), ma anche spostandosi da Londra (i Rockfield Studios a Monmouth in Galles, che abbiamo incontrato in un altro racconto).
L’album viene prodotto dagli stessi Queen in collaborazione con Roy Thomas Baker. Le registrazioni vengono seguite da Mike Stone e Gary Lyons. Il master dell’album viene infine effettuato agli EMI Studios da Chris Blair.
L’album aveva una concezione di molto ampio respiro. Secondo Brian May avrebbe dovuto essere un doppio, ma dopo accesissime discussioni con l’etichetta discografica che aveva pagato i monumentali lavori di incisione (decine e decine di tracce vocali registrate da Freddie Mercury solo per “Bohemian Rhapsody”, per esempio), si optò per farne uscire solo metà.
La seconda metà uscirà poi l’anno successivo come A day at the races. Ma, come al solito, questa è un’altra storia da raccontare.
L’ispirazione dell’intero lavoro viene alla band dai due film dei fratelli Marx, uno del 1935 ed uno del 1937 che hanno lo stesso nome.
Julius Henry “Groucho” Marx invitò i Queen a Los Angeles per complimentarsi di una così imponente opera a loro ispirata e, proprio in quella occasione, i quattro eseguirono una versione “a cappella” di “‘39”.
Nonostante le incognite di una così imponente opera, il disco sfondò subito, soprattutto in America dove si certificò presto triplo platino con più di 3 milioni di copie vendute nei soli Stati Uniti.
Scommessa vinta, un disco così pieno di spunti musicali del tutto eterogenei, così teatrale, così intriso di riferimenti all’opera (il nome non è stato scelto a caso), così “barocco” per quello che riguarda la ricchezza degli arrangiamenti, il numero di sovraincisioni (non dimentichiamoci che le registrazioni sono iniziate nel 1974, con tecnologie ben lontane dall’attuale estrema facilità di sovraincisione e manipolazione sonora), così pioneristico per certi effetti.
Un capolavoro, creato da quella che si stava apprestando a diventare la più grande rock-band di tutti i tempi.
Un capolavoro, non solo per la grandezza della band che lo ha creato, ma anche e soprattutto perché riesce a coniugare al massimo livello (credo che sia chiaro che io, nonostante sia molto più vicino al suono di altri loro dischi, pensi che questa sia la massima vetta compositiva della loro parabola) le due anime che vivevano nei Queen (Freddie Mercury, il teatrale, chiassoso e sovraesposto leader contro Brian May, lo schivo e creativo rocker) e anche i due motivi per cui i Queen fanno musica (i soldi, tantissimi soldi e fare anche bella musica) in questo album come mai prima (anche se il precedente è e rimane un album maiuscolo) e sicuramente mai più dopo.
Siamo a metà degli anni ’70, un decennio d’oro per la musica britannica e per i Queen non si fa eccezione. La band deve però sempre convincere la critica, che per loro non ha mai avuto (forse giustamente) parole leggere probabilmente a causa di una certa platealità sia dal punto di vista dei comportamenti del leader che dal punto di vista della sfacciataggine di certe melodie usate quasi a cercare approvazione facile.
E, non vorrei oltraggiare nessuno, ma per scrivere questo album e andar sul sicuro i due maggiori compositori della band (Mercury e May) hanno a mio avviso più che evidentemente intinto la propria penna in ciò che maggiormente stava avendo successo a quel tempo, e cioè l’opera di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice “Jesus Christ Superstar” (non a caso registrato proprio agli Olympic Studios frequentati anche dai nostri).
L’album è molto teatrale ed infatti l’uso dei cori che fanno i Queen non è quello che hanno insegnato al mondo i Beatles, cioè arricchire la voce principale, ma lo stesso che si faceva nel teatro greco dove il coro risponde all’azione principale, quasi a suggerire consigli e a fare la voce fuori campo.
Scorriamo quindi le 12 tracce:
- DEATH ON TWO LEGS (DEDICATED TO…): La dedica del peggio che possa accadere è all’ex manager della band Norman Sheffield, accusato da Mercury di aver abusato del proprio potere e dei soldi della band nei primi suoi anni di vita. La questione non si è risolta se non nelle aule dei tribunali a favore di Sheffield, ma comunque il fatto che Mercury si sia sempre riferito a lui definendolo “un vero bastardo che conoscevo” presentando il brano è più che certo.
- LAZING ON A SUNDAY AFTERNOON: Poco più di un minuto di pianoforte saltellante e voce effettata a mo’ di grammofono e 78 giri, la teatralità ai massimi livelli e Mercury che ammette la propria discussa sessualità.
- I’M IN LOVE WITH MY CAR: La scrittura e la voce sono quelle di Roger Taylor (caso abbastanza raro ai tempi che un batterista canti, sempre che questo non si chiami Phil Collins o Don Henley) che fa molto il verso a Roger Daltrey di The Who per un brano che ha un sapore diverso da tutto il resto del disco, ma non per questo vi stona all’interno.
- YOU’RE MY BEST FRIEND: Uno dei brani dell’album che più sono rimasti nell’immaginario collettivo. Un singolo da top 10 scritto da John Deacon per la moglie, con il bassista che suona prima il piano elettrico Wurlitzer su cui si regge l’intero brano, perché Freddie Mercury si rifiutava di suonare “quell’orribile sottospecie di pianoforte” e poi vi sovraincide la linea di basso. Una melodia molto semplice con coretti ironici per prendere in giro lo schema della ballata romantica al pianoforte. Indovinata, decisamente.
- ’39: Una ballata folk nello stile di Pete Seeger per narrare visionariamente di un viaggio che di fatto dura un anno ma che si trasforma in un viaggio nel tempo, perché al ritorno sono passati cento anni e tutti gli affetti di un tempo sono perduti. La voce è quella di Brian May, al solito sottile e lontana.
- SWEET LADY: Un rock molto british e… in ¾ (che di per sé di rock ha ben poco … eppure)! Roger Taylor maledice ancora Brian May per avergli fatto suonare una cosa del genere e la ricorda come una delle partiture di batteria più difficili di sempre ed il tempo in studio a registrare questa traccia come uno dei peggiori momenti della sua carriera.
- SEASIDE RENDEZVOUS: Ilare episodio molto tip-tap in cui la fanno da padrone le voci di Freddie e Roger che imitano strumenti a fiato nella bellissima parte centrale.
- THE PROPHET’S SONG: La canzone più ambiziosa e lunga dell’album ci porta in un ambiente che ci ricorda i Jethro Tull di “My God”, ma anche i King Crimson ed il miglior progressive britannico. La parte centrale della canzone basata sulla voce di Mercury ci fa capire quanto la band abbia amato in tutta la sua carriera fare uso dell’eco a nastro.
- LOVE OF MY LIFE: Senza soluzione di continuità dalla precedente si passa a questa meravigliosa ballata/serenata che Freddie Mercury dedicò a Mary Austin, la sua compagna di sempre, l’unica persona rimasta al suo fianco dai 19 anni fino alla morte, quella che lui considerava “sua moglie”, anche se di fatto non lo era e nonostante tutti gli amanti avuti. Gli spunti di chitarra elettrica simulano una viola, e la conclusione è affidata a un’arpa, questa volta autentica.
- GOOD COMPANY: un’altra bella canzone di Brian May in stile un po’ country, meno datato di quello usato in “’39”. Si noti inoltre come il suono di ogni strumento che potreste battezzare come strumento a fiato di un’orchestrina dixieland è in realtà stato realizzato dalla Red Special di Brian May (una cosa che andava abbastanza di moda, in quell’anno esplose in America il fenomeno Boston, con Tom Scholz che faceva fare alla sua Les Paul ogni sorta di suono pensabile).
- BOHEMIAN RHAPSODY: “Fred’s thing” la chiamavano gli altri, la “cosa” di Freddie, perché fino alla fine del mix non sapevano realmente che cosa avevano suonato, cioè Mercury la aveva fatta suonare agli altri “a pezzi” per poi metterla insieme in mixaggio e creare un capolavoro assoluto sul quale ogni parola è del tutto superflua. Da ascoltare e riascoltare. Immensità pura.
- GOD SAVE THE QUEEN: Brian May interpreta alla sua maniera l’inno britannico. Più per risposta irriverente a Jimi Hendrix e alla sua “Star spangled banner” che per patriottismo fine a se stesso. Da questo momento in poi ogni concerto dei Queen terminerà così.
Rischio di ripetermi, è un album imperdibile.
Alla prossima.
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